Nella serata di venerdì 11 ottobre, la Gioventù Federalista Europea ha organizzato un incontro online aperto i militanti con Ugo Tramballi, giornalista de Il Sole 24 Ore, per fare il punto sulla situazione odierna del conflitto in Medio Oriente e comprenderne le possibili evoluzioni future. Tramballi, corrispondente di guerra con oltre quarant’anni di esperienza tra Iran, Libano, Iraq e Afghanistan, si è presentato come cittadino europeo nato in Italia - citando Carlo Azeglio Ciampi - e ha risposto alle domande prima di Federico Tosi, Co-Chair della Political Commission External Affairs della JEF Europe, poi dei presenti.
Il giornalista ha voluto anzitutto evidenziare come Israele - per la propria posizione geografica, per le tensioni con l’Iran e con milizie quali Hezbollah e Hamas - abbia sempre avuto una politica di difesa preventiva e di operazioni militari al di fuori dei propri confini per garantire la sicurezza nazionale. Basta guardare ai conflitti del passato, come la Guerra del Kippur del 1973, per rendersi conto di come Israele abbia combattuto non solo per difendere il proprio territorio, ma per sopravvivere come nazione. Parlando del conflitto israelo-palestinese, Tramballi riconosce che la questione palestinese è rimasta centrale nel dibattito internazionale per decenni, tuttavia, ha fatto presente che è con l'ascesa di figure come Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, che la lotta palestinese ha ottenuto nuova linfa. La sua presenza ha polarizzato ulteriormente il conflitto, mettendo Israele in una posizione sempre più complicata: dover reagire con forza per proteggere i propri cittadini, ma allo stesso tempo subire una crescente pressione internazionale per cercare una soluzione pacifica.
Immediatamente dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, tutti i leader occidentali hanno espresso solidarietà a Israele, ma, consapevoli del rischio di un'escalation, hanno anche lanciato un monito a Benjamin Netanyahu. In particolare, Joe Biden ha avvertito: "Non commettete gli stessi errori commessi dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre", facendo riferimento all'invasione dell'Iraq. Il Governo di Netanyahu ci ha messo poco a tradire Biden e, prima con i bombardamenti, poi con l’invasione di terra, ha trasformato il legittimo diritto di Israele di ristabilire la sicurezza nazionale in una vendetta.
Per quanto riguarda le reazioni interne al Medio Oriente, Tramballi ha detto come il conflitto israelo-palestinese sia da sempre un conflitto regionale, per cui vanno presi in considerazione più soggetti che l’opinione pubblica ha iniziato a guardare con attenzione solo di recente. Partendo dall’Iran, è bene sapere che gli attacchi di Hezbollah contro Israele, per quanto cauti, sono iniziati già l'8 ottobre 2023, legati al messaggio che sarebbero terminati solo all’eventuale cessate il fuoco. Il Libano, invece, già è stato scenario di guerra con Israele tra il 1982 e il 2000, sostanzialmente senza alcuna conseguenza geopolitica. Questa grande partecipazione è forse il vero motivo per cui, senza un accordo politico che riporti alla luce la Risoluzione ONU 1701, non c’è nessuna via d’uscita.
Il fatto è che - ha continuato Tramballi - tale accordo oggi appare complicato, perché il Governo di Israele non sembra intenzionato a raggiungerlo e perché manca completamente l’interlocutore palestinese. La classe dirigente in Palestina è scarsa, non può essere identificata in Hamas e in Yahya Sinwar, che promuove il nazionalismo attraverso la lotta armata , né nell’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah nel suo intero, che è sostanzialmente scomparsa e continua a essere guidata da un ottantanovenne, Abu Mazen. A oggi, l’unico leader credibile pare essere Marwan Barghuthi, colui che Reuters aveva definito il “Nelson Mandela palestinese”. Lui ha sempre voluto avere un dialogo, lo aveva, ma il tribunale israeliano l’ha condannato all’ergastolo per degli episodi terroristici riguardo ai quali ha sempre dichiarato il suo non coinvolgimento. Contrariamente a Sinwar, anch’egli detenuto ma poi liberato dal Governo Netanyahu assieme ad altri 1026 prigionieri palestinesi in cambio un solo soldato israeliano, per Barghuthi non c’è mai stata possibilità di scarcerazione: Israele ha infatti congelato ogni trattativa a riguardo con tutti i Paesi del Golfo.
Secondo il giornalista, l'unico Paese del Medio Oriente che, in prospettiva futura, potrebbe rivestire un ruolo di mediatore nel conflitto israelo-palestinese è l'Arabia Saudita. Infatti, da un lato, i sauditi mantengono una relazione storicamente complessa ma evolutiva con i Paesi arabi e con i movimenti palestinesi, sostenendo la causa palestinese senza però ricorrere a toni eccessivamente aggressivi o a un conflitto diretto con Israele. Dall'altro, questi hanno progressivamente intensificato il dialogo con Israele, soprattutto in ambiti strategici ed economici, favorito anche dagli Accordi di Abramo e dalla minaccia comune rappresentata dall'Iran. Il contesto geopolitico, inoltre, rende il Regno Saudita un attore chiave: il principe ereditario Mohammed bin Salman ha mostrato interesse nel consolidare il ruolo del Paese come potenza moderata e catalizzatore di stabilità nella regione, anche in ottica di esserne voce nei contesti internazionali. Ci sarebbe anche la Turchia, con Recep Erdogan che sfrutta ogni occasione che gli permetta di ottenere un ruolo internazionale di rilievo cercando di presentarsi come un "nuovo Saladino". Ma per quanto Hamas condivida con il partito di Erdogan una comune affiliazione con i Fratelli Musulmani, gran parte del mondo arabo continua a non fidarsi dei turchi, che vede come ex oppressori ottomani.
In conclusione, dal punto di vista di Tramballi, perché il conflitto si chiuda e si inizi un percorso di pacificazione della regione servono leader di buona volontà. Proposte e soluzioni da studiare al tavolo non mancano, basta riprendere il discorso dal punto più avanzato degli Accordi di Oslo, raggiunto durante la Seconda Intifada e contenente questioni cruciali quali la gestione di Gerusalemme e il diritto al ritorno, e verificare la fattibilità di idee emerse nel corso degli anni, come quella di creare un Benelux mediorientale con Israele, Palestina e Giordania. I leader sono però difficili da trovare, Trump e Harris non hanno dato molto adito alla politica estera durante la campagna elettorale, anche perché, dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, l’argomento non è più così attraente per i cittadini statunitensi, e in Europa tanto i leader comunitari quanto quelli dei Paesi nazionali navigano nella mediocrità. È improbabile che questi ultimi si discostino dalla posizione della maggioranza globale finché non emergerà una vera unione politica in Europa o finché non saranno già avviate le trattative: solo allora potrebbero giocare un ruolo più incisivo.