Bisognerebbe riflettere sulla circostanza che forze di (estrema?) destra, che in qualche misura si ispirano alla grandezza della Roma antica e alla irrinunciabile identità della nostra «nazione» e del nostro «popolo», dimentichino da dove veniamo e qual è la nostra storia. Il «nostro» impero romano ha costruito la propria grandezza grazie alla feconda convivenza di una moltitudine di popoli diversi unificati dal progetto unitario e inclusivo fondato sulla cittadinanza romana.

È celebre, in proposito, il discorso, riportato da Tacito negli Annali, dell'imperatore Claudio davanti al Senato per sostenere la proposta di aprire ai Galli l'elettorato passivo alle cariche pubbliche: «Romolo, il fondatore della nostra città, fu così saggio da considerare parecchi popoli, in uno stesso giorno, prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri ebbero presso di noi il regno e abbiamo affidato uffici pubblici a figli di schiavi affrancati». L'editto costituiva il riconoscimento del fatto che in tutti gli ambiti della vita sociale dell'Impero i ruoli si erano «internazionalizzati», non essendovi più un'effettiva egemonia italica. Con Caracalla (editto 212 d.c.) attraverso la Constitutio antoniniana de civitate ci fu addirittura l'estensione della cittadinanza romana, con poche eccezioni, a tutti i residenti nell'impero.

Tale editto, peraltro dettato anche da più banali esigenze finanziarie, parificò la condizione giuridica e politica di tutti i residenti a quella italica. Addirittura, un imperatore, Settimio Severo, era di origine africana come lo era, ad esempio, uno dei Padri della cultura cattolica quale l'algerino Agostino.

Il concetto di «cittadinanza», a Roma antica, era quindi assai più inclusivo e dinamico che nella Roma del 2023. Certo, parliamo di tempi lontani e profondamente differenti. Tuttavia, oggi la situazione storica e geografica si caratterizza comunque per molteplici livelli di universalità e di diversità in un mondo sotto più profili globalizzato. Per evitare un'inaccettabile «omogeneizzazione» la comprensibile ricerca di una identità in riferimento alla «nazione» deve però essere declinata secondo modalità culturali e civili ma non etniche.

Nell'Europa integrata i cittadini non possono che avere nazionalità differenti; ma, in un contesto di lenta pur se progressiva «compressione» della sfera propria dello Stato nazionale, elemento unificante diviene allora il comune «progetto» sintesi di grandi culture.

Noi abbiamo una seconda cittadinanza, quella dell'Unione europea, innovativa in quanto non espressione di uno Stato. Essa è comprensiva di una serie di diritti quali libera circolazione, elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo e nelle amministrative anche quando residenti in altro Stato membro, generalizzata protezione diplomatico-consolare se si è nei guai in Paesi terzi nei quali non esiste un nostro riferimento, e così via.

Risulta, quindi, espressione, per quanto a livello embrionale, di un popolo europeo unificato non più dai tradizionali criteri distintivi di quello nazionale - via via più flebili nel mondo globalizzato - ma dal comune sentire dei valori fondamentali (democrazia, libertà, dignità, solidarietà) quali già iscritti solennemente nel Trattato di Lisbona e nella Carta di Nizza. E gli attuali cittadini europei hanno origini diversissime e colori della pelle non uniformi. Chi avrebbe pensato, dalla Svezia fino all'Italia, di avere nelle squadre sportive atleti di colore?

Allora, ipotizzare possibili «inquinamenti» etnici della nostra cosiddetta purezza italica è non solo politicamente orribile ma francamente al di fuori della realtà. Certo, ciò non significa sottovalutare i molteplici problemi derivanti da flussi migratori, prevalentemente africani, incontrollati che non siano comunque assunti, nella relativa gestione, dall'intera Unione europea e non da singoli Stati.

L'Africa è un continente formato da una popolazione molto giovane e, anche per questo, espressione di una realtà in progressiva crescita. Lo ha compreso da tempo la Cina, che vi sta effettuando investimenti economici, e quindi politici, ingenti. A suo tempo l'Europa aveva opportunamente concluso una serie di Accordi (da Lomè all'attuale Cotonou) con cui operare attraverso strutture multilaterali per realizzare stabilmente strategie di promozione dello sviluppo nei Paesi bisognosi di sostegno. Però i concreti risultati attesi sono molto deludenti anche per gli insufficienti investimenti.

Tuttavia, non dimentichiamo che l'Africa ha quale propria sponda settentrionale il Mediterraneo, mare in mezzo alle terre, che è uno spazio nel contempo reale e metaforico in cui si sono da secoli intrecciate molteplici intersezioni culturali e religiose. Esso da sempre appartiene a tanti popoli ed è difficile stabilirne i confini. Ma le barriere più pericolose sono quelle mentali e culturali mentre i colori che contano, secondo Lévi-Strauss, sono quelli delle idee.

 

  

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