La sede di Bruxelles del Parlamento europeo
Foto Calvarese/SIR

All'indomani del voto per il rinnovo del Parlamento UE, il processo di integrazione è destinato a vivere una nuova accelerazione: la strada da percorrere per far nascere la federazione europea si fa più stretta, ma anche più necessaria; le conquiste di questi decenni sono in grave pericolo, ma l'obbiettivo finale dell'Unione politica diventa a portata di mano. Come è possibile una simile contraddizione?

Andiamo con ordine. Come ampiamente previsto nei sondaggi, la maggioranza dei cittadini si è espressa a favore di partiti pro-europei, dunque popolari, socialisti, liberali e verdi, anche se le forze euroscettiche sono cresciute in modo preoccupante fino a conquistare circa un quarto dei seggi dell'europarlamento. La rielezione di Von Der Leyen, già candidata alla Presidenza della Commissione dal Consiglio europeo, resta ampiamente probabile, anche se potrà godere di una maggioranza più ridotta rispetto alla precedente legislatura. Allo stesso tempo, i partiti anti-europei di ultra-destra sono cresciuti in modo preoccupante nei due Paesi fondatori, Francia e Germania, che per anni sono stati il motore del processo di integrazione: in Germania, l'Alternative Für Deutschland ha raggiunto il 16% dei voti piazzandosi al secondo posto delle preferenze tra i partiti nazionali; in Francia, il Rassemblement National di Marine Le Pen ha raggiunto un vertiginoso 32% dei consensi, doppiando la maggioranza centrista e filo-europea di Emmanuel Macron ferma al 14%. 

I risultati delle elezioni rivelano un'opinione pubblica europea fortemente combattuta tra due tendenze apparentemente contradditorie. Da una parte: cresce il sentimento di frustrazione e di rabbia in una parte crescente della cittadinanza, che si ritiene sostanzialmente abbandonata dalle forze di governo (nazionali) su temi quali il potere d'acquisto, la sicurezza e l'accesso ai servizi pubblici. Questo sentimento viene facilmente manipolato dai populismi di destra e di sinistra, i quali propongono soluzioni "innovative" a livello nazionale, quali l'aumento vertiginoso della spesa pubblica o la securitizzazione della società, anche grazie alla creazione di nemici pubblici quali, a seconda delle esigenze, gli immigrati, l'Unione europea o le élites.  Allo stesso tempo, come confermato da più inchieste di opinione, una parte crescente degli europei chiede con forza un salto di qualità nel processo di integrazione, e precisamente la creazione di un'Unione veramente in grado di proteggere i cittadini su molte questioni fondamentali - l'ambiente, il benessere economico e la tutela dei diritti - rispetto alle quali le autorità nazionali sono percepite come impotenti. 

L'esito di queste tendenze contraddittorie è un generale disorientamento dell'opinione pubblica ed una grande volubilità del consenso politico. É questo un fenomeno tipico delle fasi di transizione della storia in cui il vecchio non vuol morire e il nuovo non riesce ancora a nascere: siamo in effetti ormai entrati nell'ultima fase del processo di integrazione europea, in cui la creazione di una sovranità europea indipendente è prossima, ma gli Stati membri sono riluttanti a cedere il loro potere una volta per tutte. Il metodo funzionalista, fautore della creazione di un'Europa a piccoli passi che rendesse i Paesi sempre più interdipendenti senza privarli però della loro sovranità, ha ormai esaurito il suo propellente

D'altra parte, negli ultimi 20 anni, gli unici passi rilevanti nel processo di integrazione europea - la creazione del MES, l'istituzione dell’Unione bancaria, l'introduzione del meccanismo europeo contro la disoccupazione e l'emissione del debito europeo - sono stati dettati dallo scoppio di gravissime crisi, dal rischio bancarotta di alcuni paesi periferici della zona euro al dilagare della pandemia. In questi momenti di grave emergenza, i governi nazionali hanno dovuto creare meccanismi di solidarietà reciproca, di cui avevano a lungo negato la necessità e la fattibilità, onde evitare l'imminente implosione dell'Unione europea.

Il prolungato stallo del processo di integrazione ha determinato una certa evoluzione del quadro politico. In seguito all'esaurimento del metodo funzionalista, i partiti pro-europei non hanno saputo aderire con fermezza al progetto federalista, condannandosi al ruolo di semplici difensori dello status quo e rinunciando ad indicare quella prospettiva di progresso civile, economico e sociale che solo la creazione un potere politico europeo può in effetti garantire. Ciò ha posto le condizioni per la crescita delle forze antieuropee che, approfittando delle debolezze dell'attuale Unione, ne hanno fatto un bersaglio ideale per la loro retorica demagogica ed estremista. Questo processo è andato avanti per circa vent’anni, portando al potere leader di estrema destra - perfino nei Paesi fondatori - e permettendo il verificarsi di fenomeni come la Brexit. 

Certo, l'Europa ha anche dimostrato una grande resilienza: le crisi sono state superate con l'adozione di misure e politiche che hanno rafforzato l'Unione e la maggior parte di cittadini ha dimostrato di non voler rinunciare alle conquiste del processo di integrazione. Per questo motivo le forze impegnate a distruggere l'Unione hanno a un certo punto cambiato strategia: hanno smesso di proporre exit unilaterali od un ritorno alle monete nazionali, preferendo vincere le elezioni con degli slogan populisti e promesse irrealizzabili onde, una volta al potere, bloccare qualunque progetto di rafforzamento dell'integrazione e mettere in atto politiche incompatibili con la tenuta dell'Unione. Si tratta di un progetto di smantellamento dell'UE da attuarsi un passo alla volta: affermando il primato del diritto nazionale su quello europeo, sviluppando politiche fiscali incompatibili con la stabilità dell'Unione monetaria, abbandonando l'Ucraina al suo destino e rinunciando a qualsiasi ambizione di tutela dell'ambiente.  

È questa sicuramente una prospettiva detestabile e tanto più dolorosa dal momento che i cittadini europei in realtà vorrebbero un'Europa diversa, capace di proteggere i loro interessi e i loro valori. L'unica via di salvezza è che tutte le forze che hanno difeso in questi anni il senso del processo di integrazione aderiscano al progetto di federazione europea e compiano degli atti concreti per metterlo in atto. Non bisogna cominciare da zero. Già molte forze politiche a livello nazionale ed europeo hanno aderito con forza al progetto federalista. Nella scorsa legislatura il Parlamento ha votato, con il sostegno dei Verdi, dei Liberali, dei Socialisti e di gran parte di Popolari, un progetto ambizioso di riforma dei Trattati volto ad abolire la regola dell'unanimità e a rafforzare la capacità d'azione dell'Unione in settori chiavi, quali la politica estera e di difesa. È fondamentale che il nuovo Parlamento europeo raccolga il testimone del Parlamento uscente e porti avanti la battaglia per la convocazione di una Convenzione incaricata di discutere la riforma dei Trattati. D'altronde, senza cambiare il quadro istituzionale, l'Unione non potrà emanciparsi dal controllo dei governi e dare risposte efficaci ai bisogni dei cittadini, i quali, in mancanza di alternative, si affideranno sempre di più alle promesse dei populisti.

Ecco così che, nell'ultima fase del processo di integrazione, la linea di divisione di Ventotene si afferma in modo inequivocabile. Da una parte si pongono le forze dell'arretramento: ne fanno parte sia i nazionalisti, che fingono moderazione, sia i fautori dello status quo; dall'altra sono chiamate ad unirsi tutte forze progressiste che sostengono la creazione di un'Unione europea sovrana. La battaglia è aperta. L'esito non è scontato.

 

  

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