Mentre prende forma con difficoltà la nuova Commissione Von der Leyen, si può analizzare l’operato della precedente, che Juncker definì una “Commissione politica”, anche in virtù del processo dello Spitzenkandidat, e “l’ultima spiaggia per l’UE”, vista la crisi del processo di unificazione. La Commissione Barroso aveva subìto un ridimensionamento del proprio ruolo, anche di iniziativa, da parte del Consiglio europeo. Juncker ha cercato di recuperarlo, con creatività e determinazione, identificando subito alcune priorità, e prendendo varie iniziative con alterni risultati nel confronto-scontro con i governi nazionali.
Ha abbandonato l’austerity lanciata dopo le crisi finanziaria del 2008 e del debito sovrano del 2011. La Comunicazione sulla flessibilità ha modificato l’interpretazione della Commissione del Patto di stabilità e crescita, e concesso maggiore flessibilità ai bilanci nazionali quando sembrava utile. E il Piano Juncker, ovvero il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI), chiamato a mobilitare 315 miliardi di investimenti nel corso della legislatura, a fronte di un piccolo contributo dal bilancio UE da usare come garanzia, moltiplicava la capacità di investimento dell’UE. Accolto con scetticismo l’EFSI ha avuto un enorme successo, mobilitando circa 439 miliardi di euro (di cui circa 65 in Italia, il secondo beneficiario in termini assoluti). Sfortunatamente in Italia nel dibattito pubblico domina ancora oggi la narrazione sull’Europa dell’austerity, 5 anni dopo un netto cambio della politica economica che ha favorito la crescita e la creazione di 14 milioni di posti di lavoro, con la disoccupazione oggi ai minimi dal 2000 a livello UE.
Sempre sui temi economici la Commissione ha rilanciato il tema del completamento dell’Unione Economica e Monetaria, promuovendo il Rapporto dei Cinque Presidenti (2015), la cui redazione è stata coordinata dalla Presidenza della Commissione – mentre per il precedente Rapporto dei Quattro Presidenti (2012), il coordinamento era della Presidenza del Consiglio Europeo. Si è scontrata con le resistenze dei governi nazionali, ma ha lavorato per procedere in quella direzione, a partire dall’unione bancaria, ma non solo. Temi ripresi anche nei Discorsi sullo stato dell’Unione di Juncker di fronte al Parlamento. Infine, ha proposto l’utilizzo delle clausole passerelle del Trattato di Lisbona per passare al voto a maggioranza qualificata sulla fiscalità, prevedendo varie tappe nel quadro di un percorso graduale. Il tutto associando ad ogni passo un’indicazione dei provvedimenti che possono derivarne e del conseguente significativo beneficio economico per i cittadini europei.
Anche sul piano del commercio internazionale la Commissione ha concluso una serie di accordi che rafforzano l’UE come pivot del commercio mondiale, e che puntellano l’ordine mondiale multipolare di fronte alle guerre commerciali di Trump. Più in generale la Commissione si è concentrata sulla politica estera, di sicurezza e di difesa, nonostante i pochi poteri al riguardo. Fin dall’inizio Juncker ha messo in evidenza la debolezza strutturale delle difese nazionali e la necessità di integrarsi anche in quel settore, suscitando molte polemiche. Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di Sicurezza comune, ha subito dato un segnale simbolico in tal senso spostando il proprio ufficio dal Servizio Europeo per l’Azione Esterna al Berlaymont, sede della Commissione. Una scelta che di campo a favore dell’integrazione sovranazionale rispetto al metodo intergovernativo.
Mogherini è riuscita a far approvare la Strategia Globale per la politica estera e di sicurezza dell’UE, che costituisce una radicale innovazione rispetto alla dottrina Solana e sottolinea la necessità di procedere a una maggiore integrazione in questo campo. Infatti la Commissione ha proposto di passare al voto a maggioranza qualificata nel Consiglio anche in materia di politica estera. Tale proposta non è stata accolta e l’UE resta incapace di parlare con un sola voce in modo tempestivo, paralizzata dalla regola dell’unanimità. Ciò è tanto più grave in una fase in cui tutto intorno all’Europa si aggravano diverse crisi internazionali – dall’Ucraina al Medio Oriente all’Africa.
Ancora, Mogherini ha avuto un ruolo cruciale nel negoziare l’accordo sul nucleare iraniano, ora in crisi per il ritiro degli Stati Uniti di Trump. E insieme a Juncker ha saputo cogliere l’occasione dopo il referendum sulla Brexit per spingere gli Stati membri a procedere per la prima volta sul tema della difesa, sfruttando anche l’impatto di Trump. Da un lato con la creazione del Fondo europeo per la difesa, e dall’altro con l’avvio per la prima volta di una serie di progetti nell’ambito della Cooperazione Strutturata Permanente sulla Difesa – che molti consideravano come la “bella addormentata” del Trattato di Lisbona. Certo, non si tratta della creazione di forze armate europee o dell’avvio di un chiaro percorso a tal fine, ma sono comunque i primi passi in materia dalla caduta della Comunità Europea di Difesa nel 1954.
Di fronte alla sfida della Brexit la Commissione e il negoziatore Barnier hanno assicurato la coesione degli Stati membri, impedendo al Regno Unito di sfruttarne le divisioni a proprio vantaggio, sebbene sia più difficile una posizione unitaria tra 27 Stati membri che da parte di uno solo. La Brexit ha mostrato il contrario: spaccature profonde nella società e nei partiti britannici, incerti sulla linea da tenere; contrapposti ad una posizione chiara e condivisa dell’UE.
La Commissione è poi stata costretta ad essere sempre all’opera, ma con risultati alterni, sul tema dei migranti e della solidarietà europea. La proposta di quote di redistribuzione obbligatorie per un periodo temporaneo, pur approvata a maggioranza qualificata non è stata implementata da molti Stati che vi si opponevano. È emersa così la debolezza relativa degli strumenti a disposizione della Commissione, specie su temi politicamente sensibili e su cui si giocano le elezioni nazionale. Tuttavia, non va scordato che grazie alla missione navale europea Sophia sono state salvate in mare 760.000 persone. Ma a causa del governo giallo-nero italiano la missione è ora sprovvista di navi e si attende che il nuovo governo italiano torni su questa decisione.
Infine la Commissione Juncker ha il merito di avere riportato in agenda la questione sociale in Europa, varando nel 2017 il “Pilastro sociale europeo” basato su “venti principi” (in certi casi anche diritti in senso stretto) che l’Unione e gli Stati dovrebbero raggiungere in campo sociale ed articolandoli su tre assi tematici: ”eguaglianza di opportunità e di accesso al mercato del lavoro”, “eque condizioni di lavoro”, “protezione ed inclusione sociale”.
In sostanza la Commissione ha recuperato un ruolo di iniziativa. Ha combattuto una serie di buone battaglie, vincendone alcune e perdendone altre. Perché non è ancora un vero governo federale dell’Unione. Per questo su alcuni temi ha avuto difficoltà ad esporsi, come sulle liste transnazionali, che Juncker ha caldeggiato, ma a titolo personale, e che il Parlamento ha rigettato. Soprattutto non ha mai potuto contare su una sponda forte e contemporanea da Francia, Germania e Italia. Ciascuna di esse ha sostenuto la Commissione in alcuni momenti su determinate proposte, ma mai tutti insieme e sul piano generale di rafforzamento dell’UE. E nemmeno su quello delle forze europeiste, che speravano in una riforma dei Trattati, mentre la Commissione cercava di sfruttare gli spiragli del Trattato di Lisbona.
Von der Leyen ha detto che la sua sarà una Commissione “geopolitica”, segno che ha colto che la sfida del prossimo ciclo politico sarà quella di rendere l’Unione capace di agire sul piano internazionale. Che da lì passa il consenso per il completamento dell’unità politica dell’Europa, indispensabile per contribuire sul piano globale a garantire la pace, a contrastare la crisi climatica, e sostenere un ordine mondiale cooperativo e multilaterale, a favorire l’avvio di un processo di costruzione di istituzioni sovranazionali a livello mondiale, in particolare per affrontare la sfida ambientale. La finestra di opportunità è breve e dipende dalla convergenza tra i governi europeisti di Germania, Francia e Italia, prima delle elezioni francesi e italiane. E dalla reale disponibilità della Francia rispetto all’europeizzazione del seggio all’ONU e della Force de frappe, i potenziali pilastri di una politica estera e di una difesa europee.