Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale (FMI) mostra come, accanto ad una maggior crescita dovuta alle nuove tecnologie, siano destinate ad un aumentare le disuguaglianze fra lavoratori. I governi e le istituzioni sovranazionali devono intervenire se non vogliono affrontare una crescente instabilità sociale.
Nel dibattito sull’impatto delle nuove tecnologie la maggior parte degli economisti supporta una visione abbastanza ottimistica circa gli effetti sul mondo del lavoro. In sostanza, rifacendosi alle esperienze di industrializzazione del passato, si assume che le nuove tecnologie aumenteranno la produttività del lavoro e porteranno ad una maggiore crescita dell’economia. Gli unici strumenti di politica economica proposti solitamente riguardano l’aumento delle possibilità di apprendimento all’uso delle nuove tecnologie e la formazione continua dei lavoratori. Si assume che la perdita di posti di lavoro sarà nulla o addirittura che aumenteranno. Le eventuali disuguaglianze fra lavoratori qualificati e non sarebbero solo momentanee e comunque risolvibili grazie all’aumento della produttività.
Ingegneri, esperti di robotica e machine learning (apprendimento automatico) ritengono invece che i lavori rimpiazzati dalle nuove tecnologie saranno molti. In special modo i lavori più a rischio sono quelli più ripetitivi, siano essi fisici o intellettuali.
Il recente lavoro di Berg, Buffie e Zanna per il FMI “Should We Fear the Robot Revolution? (The correct answer is Yes)” pubblicato in maggio (Working Paper No. 18/11 – www.imf.org/en/Publications/WP), pur tenendo in considerazione le ultime ricerche degli economisti più “ottimisti” (tra i quali Daron Acemoglu e, soprattutto, David Autor), cercano di immaginare diversi scenari possibili fra cui molti più “pessimisti”.
Il lavoro inserisce nei suoi modelli due particolari innovazioni. La prima è di chiarire maggiormente il rapporto e i collegamenti fra il capitale robot, il capitale tradizionale e il fattore lavoro. La seconda è di considerare i capitalisti (o, in alcuni degli scenari, i lavoratori con alta formazione) come gli unici agenti che risparmiano e investono, al contrario dei lavoratori non qualificati. Questo permette di capre meglio le eventuali disuguaglianze che potrebbero crearsi fra capitalisti e lavoratori oppure tra lavoratori ad alta o bassa formazione.
Il lavoro presenta poi quattro possibili scenari. Nel primo i robot competono in tutti i settori e con tutti i lavoratori. Nel secondo i robot possono rimpiazzare solo una parte dei vari lavori. Nel terzo sostituiscono solo i lavori non qualificati e sono invece complementari a quelli qualificati. Nell’ultimo scenario i robot sono utili solo in un settore economico (o alcuni settori) ad alto impatto tecnologico, mentre invece gli altri settori richiedono solo capitale tradizionale insieme al lavoro.
Le conclusioni dello studio sono molto chiare: da una parte le nuove tecnologie avranno un impatto molto importante per la crescita (anche nei casi in cui lo sviluppo tecnologico non portasse ad aumenti della produttività così sconvolgenti), dall’altra le disuguaglianze cresceranno. In particolare, anche nella più rosea delle ipotesi, la situazione dei lavoratori con poca formazione è destinata a peggiorare. Gli scenari più rosei degli studi precedenti, in cui nel lungo periodo tutti i lavoratori beneficerebbero dei frutti delle nuove tecnologie, sono possibili nella misura in cui la cosiddetta rivoluzione industriale 4.0 si rivelasse una “bolla di sapone”. Cosa non impossibile, ma alquanto improbabile.
Nel primo scenario, quello cioè in cui i robot sono perfetti sostituti degli esseri umani in tutti i compiti, anche un lieve aumento delle produttività dei robot porta ad un aumento importante della produzione, ma anche ad una diminuzione del salario reale dei lavoratori. Questo, infatti, necessiterà di un periodo fra i 20 e i 50 anni prima di tornare a crescere agli stessi livelli della fase di lancio delle nuove tecnologie; in ogni caso si registra un aumento delle disuguaglianze notevole anche nel lungo periodo.
Nel secondo scenario, dove i robot possono svolgere solo alcuni compiti, sia l’impatto sulla crescita sia quello sulla disuguaglianza è attenuato, ma i salari comunque calano anche nel lungo periodo.
Nel terzo scenario, il più vicino alla situazione prospettata da molti esperti, in cui solo i lavori (siano essi manuali o intellettuali) vengono sostituiti, la disuguaglianza è ancora più pronunciata. Il salario dei lavoratori non qualificati calerebbe, a seconda delle diverse stime, fra il 26% e il 56% nei decenni successivi all’introduzione delle nuove tecnologie. I lavoratori qualificati invece vedrebbero crescere i propri salari fra il 56% e il 157%. Il PIL crescerebbe dal 30 al 105%.
Nell’ultimo scenario si presuppone che i settori molto robotizzati siano pochi e circoscritti: nel lungo termine, per gli esperti più ottimisti, non ci dovrebbero essere particolari cambiamenti per quanto riguarda le disuguaglianze. I risultati degli autori di questa recente ricerca, invece, mostrano che questa ipotesi potrebbe realizzarsi se i robot potranno compiere solo alcuni compiti, difficilmente rimpiazzeranno il fattore lavoro e avranno effetti solo su parti molto limitate dell’economia in generale. In altri termini, se la rivoluzione non è una rivoluzione, ovviamente nulla cambierà.
Su come contrastare le possibili conseguenze, soprattutto quelle degli scenari più negativi, gli autori rimandano a future ricerche limitandosi a riassumere nelle conclusioni le due principali correnti di pensiero in merito. L’una, più incentrata sulla formazione ed educazione della forza lavoro presente e futura, l’altra, invece su questioni più relative a nuove politiche di welfare come il reddito di base.
Una cosa apprezzabile degli autori della ricerca è la loro schiettezza. Infatti, individuano subito i limiti del primo approccio. Nei fatti le politiche educative altro non sono che un modo per trasformare più lavoratori possibile da non qualificati in qualificati. Quindi, come risolvere il problema di chi avrà una formazione non adeguata al nuovo mercato del lavoro? E quanto tempo ci vorrà per questa operazione di “conversione” della forza lavoro più o meno forzata? (1)
Le politiche redistributive, o comunque di forte supporto al reddito dei lavoratori, si scontrano con due questioni. La prima è relativa al rischio di bloccare lo sviluppo tecnologico e i suoi effetti positivi sulla crescita con tasse distorsive sul capitale. La seconda è che ancor’oggi non è così facile tassare i capitali delle grandi compagnie multinazionali. Le soluzioni possono essere solo inevitabilmente sovranazionali (2).
L’Unione Europea sta cercando di sviluppare progetti innovativi (Horizon 2020) e programmi di formazione continua, ma il suo approccio resta frammentato (3) In ogni caso l’applicazione di determinate politiche su larga scala (sia quelle più educative sia quelle più redistributive) e la futura regolamentazione delle nuove innovazioni passa certamente per il quadro continentale. La probabilità che questa rivoluzione passi per i soli stati nazionali è pari a quella che non ci sia alcuna rivoluzione tecnologica. Come sottolineato dai ricercatori dell’FMI trattasi di ipotesi improbabile.
Note:
(1) Limiti recenti di questo approccio sono stati analizzati in maniera critica ma costruttiva da Edoardo Campanella nell’articolo, apparso il 10 agosto sul Sole24ore dal titolo “Nuove carriere e formazione nell’era digitale”.
(2) Cfr. Luca Alfieri - “Come far pagare le tasse alle multinazionali? Pane per denti federalisti” - www.eurobull.it
(3) Cfr. Francesco Ferrero - “La rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale”. L’Unità Europea nr. 3/2018