Nonostante la Commissione abbia manifestato una più forte volontà politica nel contrastare le pratiche di dumping, le istituzioni europee restano deboli nei confronti dei paesi quali Cina e India.
Il dumping consiste nella vendita di prodotti sui mercati internazionali a prezzi più bassi di quelli praticati sul mercato nazionale e rappresenta una delle misure di concorrenza sleale e di difficile individuazione, perché applicate non da Governi ma dalle singole imprese. Per tutelarsi da queste pratiche si mettono in atto le c.d. politiche antidumping, ossia dazi all’importazione di quei prodotti i cui prezzi sono tenuti artificialmente bassi.
Noto caso di dumping è quello dell’acciaio cinese: le imprese del Dragone per fronteggiare la stagnazione del mercato interno per via dell’eccesso di produzione (nel 2015, sono state prodotte nel mondo 100 milioni di tonnellate, di cui solo 85 dalla Cina), hanno messo in pratica politiche di prezzo per conquistare quote di mercato nei Paesi sviluppati. Nel solo 2016 la quota di acciaio cinese importata dai Paesi dell’Unione Europea è passata dal 17% al 24% mettendo in crisi l’intero settore siderurgico europeo che ha chiesto misure antidumping per evitare il collasso del settore.
Tuttavia le misure antidumping possono essere applicate alla Cina, in quanto è membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio con lo status di economia “non di mercato”: tale status termina alla fine del 2017 ed ha consentito a tutti i Paesi che hanno rilevato la pratica di dumping delle imprese cinesi di proteggersi.
Dall’11 dicembre 2017, allo scadere dei 15 anni, la Cina può chiedere il cambio di status. Tuttavia il governo cinese esercita ancora una grande influenza sulla propria economia ed avvantaggia le produzioni destinate all’esportazione (in primis l’acciaio). In risposta a questa modifica semplicemente tecnica, il mondo produttivo europeo ha chiesto alle istituzioni europee di intervenire per evitare di non avere più strumenti di tutela.
Nello scorso ottobre si è raggiunto un importante accordo. La Commissione ha proposto nuove “regole generali” per definire il dumping, in modo da poterle applicare a tutti i membri dell’OMC, sia con status di “economia non di mercato” sia di “economia di mercato”.
Questa nuova politica anti-dumping prevede che in futuro la Commissione rediga rapporti periodici sul livello di distorsioni di ciascun Paese Terzo e, sulla base di questi, le imprese europee potranno avvalersene per denunciare i concorrenti di quei Paesi che esportano i prodotti in dumping. Un tema che ha suscitato un ampio dibattito è quello dell’imposizione dell’onere della prova, ossia su chi grava la responsabilità di provare il rispetto delle regole commerciali. Con la nuova formulazione europea l’onere ricade sugli “accusati” (es.: le imprese esportatrici cinesi). Per evitare che questi si rivolgano all’OMC e ottengano facilmente pronunce per pratiche commerciali scorrette contro i Paesi europei, le imprese europee dovranno presentare un’accusa “motivata”, integrabile proprio dai rapporti della Commissione europea che costituiscono indizio di prova, e potranno richiedere l’attivazione di misure antidumping, aprendo quindi un contradditorio in cui le imprese esportatrici dovranno dimostrare il rispetto delle regole commerciali.
Non sono mancati comunque i colpi di scena. La Cina ha provato ad aggirare l’alzata di scudi europea, ricercando rapporti privilegiati con Paesi-leader come la Germania, ad esempio nel settore automobilistico, soluzione che sarebbe stata rifiutata energicamente dalla Merkel. Ciò dimostra la debolezza istituzionale europea nei confronti dei paesi quali Cina e India.
Proprio di recente nei discorsi sia del Presidente Juncker sia del Presidente Macron si è manifestata in proposito una più forte volontà politica nel contrastare le pratiche di dumping.