Un merito non può essere negato all'attuale Commissione: la costanza e la dedizione con cui persegue il progetto di un mercato europeo unico per il digitale. Juncker, con sguardo attento, ha riconosciuto la radicale importanza delle nuove tecnologie, avviando operazioni volte a colmare i gap digitali presenti nel nostro continente, talvolta con esiti fecondi. Il nostro giornale ha iniziato a trattare il tema nei numeri passati, apprezzando gli sforzi compiuti in tal senso, pur ricordando la necessità di inserire tali conquiste nel più ampio sfondo dell'integrazione politica.
In primo luogo, WiFi4EU, iniziativa che ha lo scopo di “migliorare la connettività laddove essa è assente o scarsa, colmando deficit digitali di carattere infrastrutturale”; non meno importanti le riforme sul roaming internazionale, che ora permettono ai cittadini dell'UE di “usufruire delle tariffe e degli abbonamenti nazionali quando si recano all'estero”.
Nonostante queste innovazioni d’indubbia rilevanza, che rincorrono le esigenze del mondo contemporaneo, la conversione digitale dell'economia planetaria continua a generare problematicità. Emerge con chiarezza la veridicità di un'articolazione precisa dell'analisi marxiana: “...tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato[...]hanno le loro radici nei rapporti materiali dell’esistenza […] l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica...” (Karl Marx- Per la critica dell’economia politica). In altre parole, lo stato è una sovrastruttura, e come tale si fonda sulla necessità di rispondere alle esigenze di una struttura più profonda (il sistema di produzione) che, mutando, richiede, a sua volta, cambiamenti di tipo politico-istituzionale a livello, appunto, sovrastrutturale. Questo livello mantiene comunque una relativa autonomia rispetto alla sovrastruttura, grazie alla politica che determina tempi e modalità di adeguamento tra struttura e sovrastruttura.
La rivoluzione digitale ha stravolto il sistema di produzione che non avviene più a livello locale bensì globale, coinvolgendo più attori nel mondo. È cambiato il mercato, anch'esso divenuto globale; sono cambiati i consumatori e con essi le domande di consumo, e via dicendo. L'impeto di questa evoluzione ha scosso i sistemi sovrastrutturali attuali, mostrandone l’inadeguatezza: lo stato nazionale, proclamato come naturale ed eterno, non può reggere né supportare queste dinamiche, non disponendo degli strumenti politici per controllare la nuova struttura, impostasi in modo naturale ed autonomo, secondo la dialettica dell’evoluzione del modo di produrre.
In proposito, un argomento infiamma gli animi dei leader europei: quello della web-tax. Riprendendo le parole di un articolo del 14 settembre pubblicato su Linkiesta, “al problema della tassazione dell’economia digitale è legata – immediatamente – la questione di quale possa essere il ruolo di Stati nazione”; per le ragioni sopra esposte, la risposta è: nessuno. Come potrebbero gli stati nazionali, che esercitano sovranità su un territorio delimitato da confini, tassare propriamente prodotti e/o servizi che, per la loro stessa natura, valicano i confini nazionali? Solo l'UE ha una leva politica sufficiente (quella del mercato europeo) per tassare colossi di queste dimensioni.
La necessità di una webtax è impellente: Margrethe Vestager, Commissaria europea alla concorrenza, ha rilevato accordi fiscali illegali tra Lussemburgo e Amazon, un anno dopo il caso Apple, sancendo una multa piuttosto onerosa. Lo Stato si fonda anche sul controllo fiscale della produzione di reddito; nel caso dei giganti digitali, tale controllo può essere esercitato solo su scala continentale. Questa considerazione suggerisce una riflessione radicale: non è un pugno di federalisti, illusi pacifisti ed eterni sognatori, a rincorrere l'utopia di uno stato federale. Giunti a questo stadio di sviluppo delle forze produttive, è la stessa “struttura” a reclamarne l'istituzione.