“Sono convinto che il punto di non ritorno non potrà che essere propriamente politico; non economico o monetario, e neppure istituzionale. Ricordo, e porto con me, un’osservazione fatta da Mario Albertini in una conversazione cui ebbi la fortuna di partecipare, mentre maturava la decisione dell’Unione Monetaria. Il punto di non ritorno – egli disse – non è né nelle competenze né nelle istituzioni: è il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per cui lottano uomini e partiti sarà il potere europeo. Quello sarà il momento in cui la rivoluzione avrà finito il suo compito e gli ordini nuovi creatisi, verranno occupati dalle forze politiche ordinarie, che ne faranno il teatro della loro contesa. In una società politica civilizzata, il ferro e il sangue sono sostituiti dalla lotta elettorale, gli eserciti dalle formazioni politiche”. (da Tommaso Padoa-Schioppa – Europa, forza gentile – Il Mulino, 2001 – pag. 22-23) |
Com’è noto, Il Manifesto di Ventotene ci trasmette almeno due importanti riflessioni in proposito. Con la prima si afferma che la lotta politica progressiva è quella di chi vuole creare un “un solido stato internazionale”, non di chi si batte per conquistare e conservare il potere nazionale. Con la seconda si afferma che se la lotta politica dovesse restare incanalata nel quadro nazionale, sarebbe inevitabile il ritorno ai vecchi mali del passato, in primis il riemergere del nazionalismo e della guerra. Occorreva, dunque, per gli uomini di Ventotene che la lotta politica fuoriuscisse dal quadro nazionale e si sviluppasse in un quadro europeo.
In questi settant’anni di costruzione europea abbiamo avuto una separazione tra lo sviluppo del processo europeo – basato su avanzamenti progressivi d’istituzioni e di regole da una parte – e l’alveo della lotta politica dall’altra, rimasta fondamentalmente ancora di tipo nazionale. Questa contraddizione è stata assorbita agevolmente lungo la prima fase del processo – quella della nascita della Comunità Economica Europea – perché le competenze che erano trasferite a Bruxelles, pur incidendo fortemente sull’economia e la società nazionale, non modificava sostanzialmente i termini della competizione politica, che restava nazionale. Prima con l’elezione diretta del Parlamento Europeo e poi con l’avvento dell’Unione Europea e dell’Unione Economica e Monetaria (Trattato di Maastricht) l’incidenza dei temi europei sulla lotta politica nazionale è ancor più aumentata, ma non al punto di influire sulla lotta di potere, che restava ancora al riparo del processo di unificazione.
L’introduzione dell’euro rappresenta un primo momento importante nel mutamento della natura della lotta politica. Il referendum francese del 1992 sulla ratifica del Trattato di Maastricht (che vide una vittoria del Sì di stretta misura) e la battaglia del governo Prodi per l’adesione immediata dell’Italia alla moneta unica (con la famosa ‘tassa per l’Europa’) furono i momenti più significativi in cui un tema europeo entrò con forza nel dibattito politico nazionale, al punto di incidere sugli equilibri di potere.
Ma è stata la crisi finanziaria ed economica esplosa con il 2008 che ha cambiato radicalmente il rapporto tra lotta politica e potere. Per la prima volta la politica (nazionale) tocca con mano un potere che non è più nazionale, ma che si manifesta nella forma di un potere al di là della nazione, collocato un po’ a Bruxelles, un po’ a Francoforte e qualche volta a Washington (FMI). E questa improvvisa scoperta avviene perché l’oggetto in discussione è una cosa molto concreta, che incide immediatamente e direttamente sulla produzione e la riproduzione del consenso politico: la spesa pubblica. Le prime forme di controllo europeo sulla spesa pubblica nazionale, introdotte con diverse norme (dal Fondo Salva-Stati al Fiscal Compact, al Two/Six Pack e al Semestre europeo) - ma necessarie per salvare un’Unione monetaria che i governi nazionali vollero priva di un governo federale e democraticamente responsabile - determinano un mutamento radicale nel rapporto tra politica e potere. Improvvisamente la politica (nazionale) scopre di non aver più un potere assoluto sulla spesa pubblica, ma che esiste un altro potere (meta-nazionale) che vuole avere voce in capitolo su di essa. È il momento in cui politica nazionale e politica europea comincia a mescolarsi, perché c’è ora un oggetto di potere comune a entrambi: i bilanci nazionali. È da questo dato che si registra la nascita dei movimenti prima euro-scettici, poi populisti e anti-europei, di destra e di sinistra, accomunati dal rifiuto dei ‘parametri di Maastricht’ e associati nel tentativo di riportare sul piano nazionale il controllo esclusivo sulla spesa pubblica.
Questa scissione tra politica (nazionale) e potere (meta-nazionale) rappresenta il cuore della crisi di rappresentanza, della politica e, in ultima istanza, della democrazia nei nostri Paesi. Essa può essere superata non certo con il ritorno al passato, bensì con la nascita di un nuovo tipo di lotta, capace di portare la politica, la rappresentanza e la democrazia sul terreno europeo.
Alla luce di queste considerazioni possiamo meglio comprendere la portata del concetto che Mario Albertini intendeva esprimere sostenendo che il punto di non-ritorno del processo di unificazione non starà tanto nel trasferimento di nuove competenze o di nuove istituzioni, bensì nella nascita di una lotta politica europea per un potere europeo.
I due termini del problema (politica e potere) evidentemente devono stare assieme, poiché la politica è la lotta per la conquista e la conservazione del potere. Non è possibile immaginare una politica senza un potere (da conquistare e da conservare), così come non è possibile immaginare un potere senza una politica che, giorno dopo giorno, lo vivifichi e lo legittimi. Vicendevolmente si condizionano e si alimentano.
Le contraddizioni del processo di unificazione invece ci hanno portati a un punto di crisi, quello in cui abbiamo una politica (monetaria) senza un potere (lo Stato europeo), abbiamo istituzioni e regole per determinare l’economia europea, ma non abbiamo la (lotta) politica europea che dovrebbe pre-determinarla. Questa lampante contraddizione è nata – come abbiamo visto – sul tema del controllo delle spese pubbliche (quindi dei bilanci) nazionali da parte delle istituzioni comunitarie, le quali possono indirizzare e anche sanzionare comportamenti politici nazionali giudicati non conformi. È questa una forma di potere europeo in nuce perché è basato su istituzioni e regole (più o meno condivise) anziché su una lotta politica europea.
Occorrono allora due condizioni perché una lotta politica si dispieghi sul terreno europeo. La prima è che, accanto alle istituzioni e alle regole, sorgano anche le risorse materiali di tipo proprio, cioè autonome rispetto agli Stati. Poco importa quale sia la tipologia di risorse (TTF, tasse sulle società, webtax o altro ancora), l’importante è che sia una risorsa europea, cioè percepita e/o gestita centralmente. Perché una risorsa è un potere.
La seconda è che su questa risorsa, limitata ma reale, si affermi un controllo democratico di tipo europeo (Parlamento europeo). Ciò è fondamentale ai fini della nascita di una lotta politica europea perché è proprio questo potere di controllo sulle prime linee fondamentali di una politica economica europea che potrà generare una reale competizione politica europea. Un potere europeo in formazione, che determina - dunque – una lotta politica europea per la sua conquista.
La lunga partita che è iniziata da qualche tempo sulla questione del bilancio dell’Eurozona presenta le caratteristiche che abbiamo sopra descritto: a) il passaggio da un potere negativo d’interdizione, basato solo su regole, a uno in positivo, basato su risorse proprie europee, cioè su un oggetto di potere, per dirla con Albertini; b) il legame tra quest’oggetto e la legittimazione democratica europea per la sua gestione.
È quanto basta per scatenare una lotta politica europea lungo il nuovo ordine europeo che si sarà creato.