Mario Albertini e Altiero Spinelli

Il 16 novembre si è tenuto all’Università di Pavia il Convegno “Il federalismo europeo e la politica del XXI secolo: l’attualità del pensiero di Mario Albertini”. Proponiamo una sintesi della relazione di Giovanni Vigo sul concetto di militanza federalista, che ha consentito al Movimento di condurre una battaglia politicamente autonoma nel corso di tanti decenni.

ll 16 novembre si è tenuto all’Università di Pavia il Convegno “Il federalismo europeo e la politica del XXI secolo: l’attualità del pensiero di Mario Albertini”. Cogliamo questa circostanza per portare a conoscenza del lettore due fondamentali acquisizioni teorico-politiche che Albertini ci ha lasciato e che rivestono ancora oggi particolare importanza, nel momento in cui lo scontro in Europa tra federalismo e nazionalismo si fa più forte ed ha bisogno di una nuova leva di forze. La prima è quella del concetto di militanza federalista, che ha consentito al Movimento di condurre una battaglia politicamente autonoma nel corso di tanti decenni. La seconda è quella dell’ideologia nazionale, come ideologia dello stato burocratico e accentrato, che ha reso possibile il nazionalismo e il totalitarismo.

Nel 1984 un gruppo di giovani federalisti decise di dar vita ad un organo di discussione sulle grandi svolte della politica europea e mondiale, sulla strategia della lotta per l’Europa e, più in generale, sull’attualità del federalismo. Nacque così Il Dibattito Federalista. Mario Albertini suggerì di scrivere sulla copertina una frase che ha rappresentato un costante punto di riferimento del suo impegno politico: “Il militante è colui che fa della contraddizione tra i fatti e i valori una questione personale” (1).Chi decideva di impegnarsi con il MFE nella lotta per l’Europa, doveva sapere che s’incamminava lungo una via difficile e che non offriva altro premio al proprio lavoro se non la soddisfazione del dovere compiuto. Per questo nel primo numero del Dibattito, si scriveva che l’esperienza del Mfe aveva aperto la strada ad “un nuovo modo di fare politica” che richiedeva da parte dei suoi militanti “un alto livello morale e culturale”.

Nella visione di Albertini la battaglia per l’unità europea parte dalla constatazione (comune a Spinelli) che il quadro nazionale, proprio perché storicamente in declino, era troppo angusto per consentire il rinnovamento dei partiti e la rigenerazione della vita democratica. Ma pur se necessaria, non è affatto detto che l’unità europea si verificherà necessariamente (“L’Europa non casca dal cielo”, così si intitola un libro di Spinelli). E così pure Albertini: “Non sappiamo se l’unità federale europea si farà, sappiamo però che si farà solo se si comprenderà la rovinosità di qualsiasi politica ad orizzonte nazionale. Circostanze favorevoli potranno presentarsi fra sei mesi, fra un anno, fra dieci anni; non saremo noi a determinarle; ma affinché siano sfruttate per rompere infine il cerchio magico delle sovranità nazionali, occorre che ci sia chi abbia instancabilmente denunziato il male, abbia mostrato quel che vi è di ingannevole nella pretesa di tutti, senza eccezione, i partiti che accettano il quadro nazionale come quadro normale della loro attività, e che promettono in questo quadro cose che non possono mantenere” (2). Questo ruolo poteva essere svolto soltanto da un movimento rivoluzionario, che non avrebbe ceduto a sconfitte momentanee ma che sarebbe rimasto sul campo, pronto a riprendere la battaglia là dove era stata interrotta.

Iniziò così quello che nella tradizione federalista viene chiamato il “nuovo corso” (seconda metà degli anni ’50, dopo la sconfitta della CED). Il punto sul quale far leva, spiegava ancora Spinelli, non erano più i governi nazionali che nei fatti avevano rinunciato al disegno federale, bensì il popolo europeo che, con la sua mobilitazione, li avrebbe costretti a cedere la loro sovranità nei settori in cui non erano più in grado di esercitarla efficacemente. Al tempo della Ced il MFE aveva potuto agire di volta in volta come consigliere del principe e come gruppo di pressione. Ora i governi avevano voltato pagina e il Mfe doveva imboccare una strada diversa, di cui nessuno sapeva misurare la lunghezza. Era venuto il momento della pazienza e della riflessione e Mario Albertini era la persona giusta per affrontare tutti questi compiti.

Bisognava mettere in cantiere nuove iniziative per il reclutamento e la formazione dei militanti che non potevano più essere esponenti della politica nazionale, bensì “un gruppo di uomini liberi che, sfidando la naturale tendenza ad accettare l’esistente e ad adeguarvisi per ottenere il successo e promuovere la propria carriera, sapesse battersi per l’unificazione federale dell’Europa”(3).

Spinelli affrontò apertamente la questione in uno scritto del 1956. I “federalisti non hanno sviluppato nel loro seno un nucleo di militanti…..cioè uomini animati dalla passione politica, dall’ambizione di contare qualcosa fra i loro contemporanei, e che hanno deciso di far coincidere questa passione e quest’ambizione con la realizzazione degli scopi dell’organizzazione cui appartengono. Non tutti gli appartenenti ad un movimento sono militanti…. Ma i militanti, quelli che si sono impegnati a fondo ed hanno puntato il loro avvenire politico sulla riuscita della loro azione, sono il nerbo di qualsiasi organizzazione” (4). Spinelli era ben consapevole della lunga marcia nel deserto che attendeva i federalisti, e pensava che il nuovo militante dovesse essere un politico a tempo pieno, che viveva certo per la politica ma anche di politica e che realizzava compiutamente la sua missione dedicando tutte le sue energie alla causa dell’unità europea.

Albertini aveva invece una visione diversa della figura e dell’impegno del militante. Ricordando il duro confronto con Spinelli ha scritto: “Io volevo... degli uomini che facessero della contraddizione fra valori e fatti che si manifesta nel nostro tempo una questione personale: dei militanti che, pur essendo politici di professione, lo fossero a mezzo tempo, senza salario, e con una possibilità di sopravvivere indipendentemente dal potere” (5). Secondo Albertini ci si avvicinava all’Europa seguendo diversi percorsi: la rivolta morale suscitata dalla negazione dei valori della democrazia e dell’uguaglianza da parte dello Stato nazionale che “impone di considerare gli uomini degli altri Stati come stranieri, all’occorrenza da uccidere”; la protesta intellettuale derivante dalla consapevolezza che gli Stati nazionali non erano più in grado di risolvere i grandi problemi della nostra epoca; la volontà politica che non prendeva in considerazione soltanto i problemi da affrontare ma anche la strategia per risolverli.

L’ulteriore difficoltà era costituita dal fatto che la società non indirizza spontaneamente gli uomini verso il federalismo. I canali normali di trasmissione della cultura (scuola, stampa, ecc.) adottano sempre il punto di vista nazionale, e considerano il mondo come un mondo fatto di liberali, democratici, socialisti, comunisti, cristiano-sociali, fascisti ecc. ... In questo contesto, uno diventa federalista solo se le circostanze dello vita lo inducono ad una specie di conversione” . Nella sua opera di proselitismo, il militante federalista doveva dunque assolvere a due compiti: il primo era il reclutamento, il secondo la formazione. Il secondo compito, quello della formazione, richiedeva un impegno non comune. Militante non si nasce; ci si forma nella lotta politica che non può però essere disgiunta dallo studio e dalla discussione. “Può parere strano, scriveva ancora nel 1959, che per compiere una impresa politica si debba mettere in piedi dentro una organizzazione di lotta, una organizzazione di studio che avrà regole e strutture più simili a quelle delle scuole di pensiero che a quelle delle associazioni politiche. Eppure in tutte le imprese rivoluzionarie qualcosa di questo genere è sempre esistito, perché il compito più difficile del rivoluzionario è proprio quello di usare bene la ragione per dirigere la lotta verso un obiettivo nuovo in un mondo dove le abitudini, i pensieri fatti, i luoghi comuni indirizzano gli uomini verso i vecchi obiettivi” (6).

Solo uomini che abbiano saputo nel contempo temprare il carattere e rafforzare la ragione sapranno esercitare l’arte del pilota, cioè indicare la indicare la direzione di marcia. Il lavoro oscuro del militante poteva essere svolto solo da persone che non dipendevano da altri per la loro sopravvivenza, e all’interno di una organizzazione la cui autonomia era assicurata dall’autofinanziamento dei suoi aderenti.

Spinelli riteneva che per riprendere il cammino dell’unificazione si dovesse tornare a far leva sulle forze politiche nazionali più sensibili al problema europeo. Ma in assenza di battaglie risolutive all’orizzonte (come all’epoca della CED) bisognava invece preparare l’opinione pubblica a far sentire la sua influenza quando l’ora fosse scoccata. Azioni come il Congresso del Popolo Europeo (fine anni ’50) e successivamente del Censimento volontario del popolo federale europeo (primi anni ’60) si proponevano di mobilitare l’europeismo organizzabile e diffuso, nella prospettiva di un atto di natura costituente.

Queste azioni costituirono una palestra di inestimabile valore per la formazione di una nuova generazione di militanti determinati a continuare la lunga marcia nel deserto.

Con gli anni ’70 si abbandonava la via del massimalismo (la convocazione della Costituente all’inizio del processo come avrebbe voluto la logica), e si abbracciava invece la strategia del gradualismo costituzionale, elaborata da Albertini. Essa si poneva obiettivi precisi per i quali era possibile definire una chiara strategia con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo (come diceva Jean Monnet), che provochi un cambiamento fondamentale su un punto e modifichi progressivamente i termini stessi dei problemi. A giudizio di Albertini il punto che avrebbe modificato “i termini stessi dei problemi” era l’elezione diretta del Parlamento europeo, il primo germe di democrazia e avrebbe spostato la vita politica dai quadri nazionali al quadro europeo.

Dopo quella vittoria era necessario continuare a tessere pazientemente la tela del gradualismo costituzionale individuando un nuovo obiettivo che avrebbe approfondito le contraddizioni del processo. La moneta sembrava il terreno più propizio per riprendere la battaglia. “Bisogna accettare, scriveva Albertini nel 1973, e sostenere, contro la logica, una operazione graduale di unificazione monetaria precedente, e non seguente, la creazione di un potere politico europeo perché i protagonisti del processo per quanto riguarda l’esecuzione...non si comportano secondo criteri logici.. Se si riesce a impegnare qualcuno per qualcosa (l’unione monetaria) che implica un presupposto (il potere politico), può accadere che costui finisca per trovarsi suo malgrado nella necessità di crearlo” (7)

Fu così che con la moneta unica i federalisti avevano colto un’altra vittoria strategica. Nella sfera economica si può passare per gradi da una situazione nazionale ad una situazione sempre meno nazionale e sempre più europea. Nella sfera della politica estera e della difesa questa evoluzione graduale non è possibile. Il fatto che il completamento dello Stato sia un processo graduale, non vuol dire — e Albertini l’ha ribadito più volte — che anche il trasferimento di poteri sovrani dalle nazioni all’Europa sia un processo graduale. Esso è il risultato di una decisione puntuale che consente di varcare il confine che separa la federazione dalla confederazione. Una volta compiuto il salto il resto verrà. La soluzione è teoricamente semplice, ma la battaglia sarà lunga e difficile perché le classi politiche nazionali non si rassegneranno a perdere il loro potere, per quanto illusorio esso sia.

Anche per noi vale la considerazione che la pazienza è una virtù rivoluzionaria.


Note.

(1) Questa definizione di militante si incontra per la prima volta in un Rapporto al MFE, in “Giornale del Censimento”, I (1965), n. 1, ristampato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna 1999, p. 139.

(2) Il federalismo militante. Vecchio e nuovo modo di fare politica, in “Il Dibattito Federalista”, I (1985), pp. 1-3, ristampato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit., p. 445.

(3) Francesco Rossolillo, Il ruolo dei federalisti, in “Il Federalista”, XLIV (2002), p. 194.

(4) Altiero Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960, p. 254.

(5) Mario Albertini, Il federalismo militante. Vecchio e nuovo modo di fare politica, cit., p. 442.

(6) Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit., p. 389.

(7) Mario Albertini, Il problema monetario e il problema politico europeo, in Studi in onore di Carlo Emilio Ferri, Milano, Giuffré, 1973, ristampato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit., p. 174.

  

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