Nei suoi scritti politici David Hume osserva che persino nel più feroce dei regimi politici il potere si regge sempre sul consenso: quello dei pretoriani – una maggioranza – nei confronti del sovrano; quello dell’esercito - ancora una maggioranza – nei confronti dei pretoriani e, infine, quello del popolo nei confronti dell’esercito.

Non sono noti i legami che ci consentono di connettere questa riflessione di Hume alla teoria marxiana dell’ideologia, ma è un fatto che Marx ha esteso questa riflessione ai rapporti sociali: la classe dominante – la borghesia – giustifica e rende accettabile il suo dominio sulla classe operaia con il concetto di meritocrazia, invertendo il rapporto con l’operaio, che non è operaio perché ignorante, ma è ignorante perché operaio. Questo fenomeno di coscienza mistificata è stato chiamato da Marx “ideologia”, un giudizio di valore scambiato per un giudizio di fatto idoneo a giustificare il dominio sociale del dominante e a renderlo accettabile al dominato.

Questo concetto marxiano è stato utilizzato da Albertini (“Lo Stato nazionale”, Giuffré editore, 1960) estendendone l’area di significato ai rapporti politici: l’ideologia nazionale, cioè l’idea che la comunità politica fosse la “comunità” tout court (nel linguaggio hegeliano la gemeinshaft opposta alla gesellshaft), offriva a chi deteneva il potere la giustificazione del suo dominio e lo rendeva accettabile a chi lo subiva. Questo potere era quello demoniaco dello stato burocratico-accentrato, che disponeva dello jus vuitae ac necis su tutti i cittadini, buoni cittadini se “buoni soldati” pronti a uccidere e morire per il nuovo feticcio: lo stato posto al servizio della classe dominante.

E’ qui che nascono le perversioni della cultura europea, con la trasposizione del linguaggio religioso a quello della politica: i martiri della patria, i sacri confini nazionali come se potesse esser sacro quel confine ove si uccide, l’altare della patria, le preghiere dei soldati in cui si prega Iddio perché conceda la vittoria, come se esistesse un Dio tedesco in lotta con il Dio francese e come se la cultura politica fosse regredita alla cultura della grecità, quando Athena parteggiava per Achille e Afrodite per Ettore, in una parola trasformando la “persona” in “soldato”.

L’analisi di Albertini si chiariva ulteriormente attraverso un approfondimento storico di questa trasformazione. Quando con l’uccisione di Luigi XVI venne a cadere il fondamento teocratico del potere e Parigi si trova sotto il tiro dei cannoni prussiani, un semplice avvocato di Bordeaux, che aveva urgenza di portare al fronte  contingenti militari più motivati dei vecchi eserciti dell’assolutismo, fu costretto a escogitare un nuovo principio di legittimità: la Nazione. Essa trasformava i sudditi in cittadini, arbitri del proprio  destino e chiamati a difendere in armi la propria identità comunitaria, una comunità coincidente con lo Stato: la Francia. Ma i francesi non esistevano. Ancora nella seconda metà del XVIII secolo Proudhon osservava che era facile rendersi conto che il francese non esiste; esistono invece bretoni, normanni, cittadini di lingua d’oca, alsaziani, etc. I francesi occorreva farli. E Barère, consigliere di Robespierre ne indicò la strada: scuola di stato per imporre a tutti l’uso della “langue d’oil” e “levée en masse” (servizio militare obbligatorio) perché tutti potessero capire che chi stava sulla sponda occidentale del Reno era “tuo fratello” e che quello che si trovava su  quella orientale – e ti sparava contro – era il nemico.

Questa trasformazione che avvenne nella Francia della Grande Rivoluzione, si estese progressivamente al resto d’Europa nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita della Germania e dell’Italia e l’acuirsi di quelle tensioni internazionali che porteranno al primo conflitto mondiale. Quel conflitto aprì la strada alla piena affermazione del  principio nazionale i cui tragici sviluppi che si ebbero col fascismo e il nazismo non costituirono che funeste conseguenze.

Annientata la Germania nel ’45, l’affermarsi dell’equilibrio bipolare, che relegava gli stati europei al rango di vassalli delle grandi potenze, sembrò cancellare gli orrori di un passato maledetto. Lo sviluppo delle forze produttive d’altro canto apriva ai mercati la strada dell’interdipendenza all’interno di un mondo multipolare nel quale l’Europa sembrava costituire l’avanguardia esemplare sulla strada del federalismo, come auspicava Gorbachev.

Le cose purtroppo non sono andate cosi. La strada dell’unificazione europea  non si è ancora conclusa e non può ancora mostrare, con un nuovo ordine costituzionale, le enormi virtualità di cambiamenti profondi nella vita degli europei e, in prospettiva, dell’intero genere umano: perché fare la federazione europea significa cancellare definitivamente il mito dello stato nazionale, quello stato che ha sacralizzato il principio dell’identità esclusiva, quel maledetto principio per cui un francese e un tedesco ugualmente affascinati da Beethoven debbano ammazzarsi  per la loro - accidentale - diversità linguistica.

Con una metafora il discorso diventa ancor più chiaro. Se si chiedesse a un ipotetico strasburghese a metà del secolo XVIII quale fosse la sua identità, costui ci direbbe di non averne una, ma molte, quelle determinate dal fatto di essere nato in quel preciso luogo: tante identità quante erano le sue nazionalità (nazione da nascor). Eccole: quella del suo quartiere, ove intrattiene face to face relations, quella di Strasburgo ove acquista e vende merci al mercato di Place Klébèr, quella alsaziana che gli offre la lingua materna, quella renana, legata a quel fiume che da secoli costituiva una vitale via di commerci, quella della Res publica europaea literatorum, la  patria comune dei philosophes, etc. Con un certo stupore noteremmo che nell’elenco non figura la Francia. Stupore ingiustificato. Il nostro personaggio non aveva in pratica alcun contatto con il potere regio, una semplice machinery, come diceva Locke, il cui compito si limitava alla tutela di esigui interessi collettivi. Ma quel medesimo personaggio, ai tempi di Robespierre avrebbe invece risposto subito: “je suis français”. Cos’era successo’? La risposta è semplice: il cerchio che identificava lo stato francese aveva cancellato d’un sol colpo cerchi minori e maggiori, cioè micronazionalità spontanee e supernazionalità anch’esse spontanee, aveva annullato le identità plurime e affermato forzosamente un’identità esclusiva, quella definita dall’appartenenza allo Stato.

Passata la sbornia dell’identità esclusiva forzosamente indotta dallo stato ottocentesco, la fine storica dello Stato nazionale offre l’occasione straordinariamente favorevole per ricostruire con nuove istituzioni e, soprattutto, nella democrazia, un federalismo animato da uomini dalla plurima identità. Tra queste le più imporranti sono quelle che si trovavano alle estremità: quella spontaneamente comunitaria,  all’interno del quartiere e quella cosmopolitica che può favorire la coscienza che, per usare la terminologia di Kant, l’io empirico altro non è che l’apparire fenomenico dell’io trascendentale, quello che ci fa riconoscere come uomini tra altri uomini. L’occasione non è stata ancora colta perché una statualità federale non si è ancora affermata in Europa. E così oggi abbiamo rigurgiti micro-nazionalisti (crisi catalana) o neo-nazionalisti se non apertamente fascisti e, per converso, il goffo tentativo di far rivivere l’identità esclusiva con i patetici appelli all’unità nazionale, siano essi quelli di Mariano Rajoy o di Marine Le Pen.

Se vogliamo utilizzare termini e concetti di questo scritto, alla domanda “a che serve la federazione europea?” potremmo rispondere semplicemente “a seppellire il mito dell’identità esclusiva e ad affermare che la nostra identità dipende da molte cose”, non poche delle quali sono assai più nobili dello stato in cui viviamo. Noi italiani ne sappiamo qualcosa.

  

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