La vicenda greca ha mostrato tutte le contraddizioni che sta vivendo il processo di unificazione europea. Nella sua storia pluridecennale non c’è stata una crisi, quale quella greca, in cui si siano sovrapposti problemi così numerosi, complessi e drammatici, accompagnati da un livello altissimo di scontro politico e di emotività nell’opinione pubblica europea.
Nella lotta politica, quella che fa la storia, pesa molto anche il modo in cui questa è narrata. Infatti, è su una comunicazione semplificata che si divide l’opinione pubblica, si formano gli schieramenti politici: sotto quest’aspetto la vicenda greca è un caso da manuale. Per anni, e negli ultimi sei mesi in modo particolare, abbiamo avuto due distinte narrazioni: una si è sviluppata soprattutto nei Paesi del centro- nord Europa, l’altra in quelli mediterranei.
Nella prima narrazione mainstream il rispetto delle regole è un elemento morale che regola anche i rapporti tra gli Stati ed è alla base della fiducia reciproca. Chi viola queste regole si pone al di fuori del rapporto fiduciario che governa la vita di una comunità, di un’alleanza o di un’unione di Stati. Ne deriva che, per essere riammessi come membri di una istituzione comune, occorre fornire ampia prova di volerle rispettare in futuro. Tradotto nel nostro caso, i governi greci (in particolar modo quello di Tsipras/Varoufakis), a causa del loro comportamento, avrebbero perso la fiducia degli altri Paesi dell’Unione Monetaria, fiducia che può essere ristabilita solo a seguito di un comprovato comportamento coerente. Non a caso nell’accordo del 12 luglio 2015, l’espressione “occorre ristabilire un clima di fiducia” è ripetuto per ben due volte nel primo paragrafo del testo (Dichiarazione del vertice euro - http://www.consilium.europa.eu/it). Ma questo mainstream ha comunque un punto debole e sta nel fatto che le regole nascono sulla base dei rapporti di forza tra Stati che agiscono in un ambito intergovernativo, quindi in ultima istanza, in base alla legge del più forte, anziché sulla base di una decisione politica presa da istituzioni sovrannazionali, democraticamente legittimate, cioè federali. La legittimazione ultima degli accordi che derivano dalle attuali regole che governano l’Unione monetaria sta, sostanzialmente, ancora in un sistema europeo di democrazie nazionali, tant’è vero che alcuni parlamenti nazionali rivendicano il diritto di giudicare/decidere se un certo accordo europeo è conforme o meno alle regole europee.
Nella seconda narrazione mainstream, invece, l’idea centrale è rappresentata dall’azione di una non meglio precisata “finanza internazionale” che utilizzerebbe la crisi per eliminare la sovranità e la democrazia nazionale, trasferendo potere a un ceto tecnocratico sovrannazionale, irresponsabile politicamente ed autoreferenziale. La crisi intervenuta dopo il 2008 ha rafforzato questa narrazione perché ha mostrato l’estrema debolezza delle sovranità nazionali, schiacciate dalle stesse regole che l’Europa intergovernativa si è dovuta dare per puntellare un’unione monetaria a continuo rischio d’implosione. Queste regole sono state lette come lo strumento per imporre una politica di austerità, funzionale – secondo questa narrazione – allo svuotamento di sovranità e di democrazia nazionale. Ovviamente questa narrazione presenta molte debolezze, tra queste, ad esempio, quella di dimenticare che le decisioni politiche le prendono i governi, non una fantomatica finanza internazionale. Oppure, ben più importante, quella di considerare la sovranità e la democrazia come fatti, per loro natura, solo nazionali (la democratie n’existe pas au delà de la nation, come amano ripetere i sovranisti francesi), che non possono essere dunque superati da decisioni ‘europee’. Senza, invece, rendersi conto che lo scopo ultimo del processo politico che l’Europa vive da settant’anni è proprio quello di costruire una sovranità e una democrazia europea, per decidere le questioni comuni che riguardano gli Europei, cioè quelle sulle quali si misura la loro capacità di stare al mondo in quanto tali.
Ma ciò che entrambe le narrazioni nascondono all’opinione pubblica europea è l’anomalia del punto di partenza del processo di Unione monetaria. Occorre infatti ricordare che la moneta unica ha creato un vincolo ineliminabile tra i Paesi che l’hanno adottata, rendendo irreversibile il processo di unificazione. L’euro ha già tolto la sovranità agli Stati, non solo sul terreno monetario, in parte anche su quello economico, creando una costituzione economica materiale di fatto, ma senza trasferirla ad un’istanza europea di potere democratico, cioè ad un governo federale. Mentre la sovranità monetaria è migrata correttamente verso un ambito federale (la BCE), quella economica è migrata verso un ambito intergovernativo, rappresentata dal Consiglio europeo (i capi di governo) e dall’Eurogruppo (i ministri nazionali dell’economia). Attorno a quest’anomalia di fondo i governi nazionali hanno costruito le regole (dai parametri di Maastricht a quelle del Fiscal Compact, fino a quelle del M.E.S.) per far funzionare una unione monetaria senza un governo: “A Maastricht i governi nazionali stabilirono i parametri perché non vollero fare un governo federale europeo” (Jean-Claude Trichet, ex Presidente della BCE).
I giorni che vanno dal referendum greco (5 luglio) all’accordo tra le Istituzioni e il governo di Tsipras (12 luglio) hanno evidenziato questa anomalia. La massima espressione della sovranità nazionale (un referendum nazionale per dire NO a una proposta europea) si è trasformata di colpo nell’accettazione dell’auctoritas europea. Si è parlato di sovranità ‘ferita’ e di democrazia ‘umiliata’. L’errore stava semmai nel credere che una questione europea decisiva (quale quella del futuro dell’unione monetaria) potesse essere decisa sulla base della democrazia e della sovranità nazionale di un Paese. E perché mai? Parimenti, la pretesa di mantenere in vita l’unione monetaria sulla base delle sole regole, secondo il mainstream in certi paesi nordici, si è trasformata di colpo nella necessità di ri-aprire il cantiere dell’unione fiscale (che il documento dei 5 Presidenti aveva rimandato a dopo il 2017) e di avviare il dibattito della sua legittimazione democratica sul terreno europeo (cfr. l’Osservatorio federalista a pag.19-20).
Dunque, al contrario di ciò che pensano gli “euro-piagnoni” - per usare un termine felice introdotto da Andrea Manzella (La Repubblica, 27.7.2015) – che “si dimettono dall’Unione perché questa avrebbe perso la sua anima e loro non vogliono morire tedeschi” e che si stracciano le vesti perché sarebbe morto “il sogno di Ventotene”, il dramma greco mostra che può determinarsi una svolta nel processo europeo. Che non è quella che immaginavano i sostenitori di Syriza (modificare le regole applicate alla Grecia per cambiare l’Europa), ma quella di far avanzare il processo politico europeo come risposta alla crisi greca: in altri termini, è l’Europa che, cambiando la Grecia, capisce che deve cambiare essa stessa.
Ciò che è realmente in gioco, in questa lunga crisi europea, di cui la vicenda greca rappresenta il detonatore, è la possibilità o meno di far emergere un potere europeo reale, capace di dare omogeneità e compattezza all’economia e alla società europea. Sono due aspetti connessi tra loro, che devono poter stare assieme. Se non c’è un potere europeo non può manifestarsi tutta la forza di un’economia che deve confrontarsi con i colossi mondiali. Ma se questa economia continua a mostrare modelli sociali troppo divergenti al proprio interno, ciò rende difficile la nascita di un potere politico europeo. La richiesta delle riforme strutturali per la Grecia, ma anche per l’Italia (afflitta dagli stessi mali della Grecia, come ha denunciato di recente il rapporto Svimez), non è dunque espressione di “ordo-liberismo”, bensì la base per condividere i rischi a livello europeo, quindi per condividere anche la sovranità economica e politica. Ed è chiaro che per condividere i rischi occorre ristabilire un clima di fiducia tra i Paesi che condividono la stessa moneta, clima che era stato spezzato dal governo greco in quattro mesi di trattative inconcludenti. L’accordo del 12 luglio ha sancito questo punto: “ristabilire un clima di fiducia” è essenziale per poter stare assieme.
La posta in gioco è dunque quella della nascita di un potere europeo nel quadro dell’avanzamento di riforme strutturali dell’economia europea, necessarie perché l’Europa possa competere con il resto del mondo (e la crisi che oggi viene dalla Cina ripropone un interrogativo analogo a quello che venne dagli USA nel 2008). La partita reale si giocherà sul terreno dell’unione fiscale ed economica: un bilancio dell’Eurozona, con risorse finanziarie indipendenti da quelle degli Stati, quale prima espressione di un governo federale, capace di decidere quali riforme, quale welfare, quale mercato interno, quali investimenti per gli Europei.