La soluzione della crisi greca, sebbene ancora in corso d’opera, ha riportato la politica al centro della costruzione europea, aprendo nuove possibilità d’azione per costruire l’unione federale, come mostrano le diverse proposte messe in campo, non ultima quella del Ministro Schaeuble di istituire un’eurotassa per alimentare un fondo ad hoc per l’eurozona. Partiamo da questo dato di fatto per capire quanto è successo negli ultimi mesi ed il senso dell’azione per fare l’Europa oggi.
I. Cosa è successo
Quando è stato presentato il Rapporto dei cinque Presidenti il 22 giugno, sembrava che non ci fosse alcuno spazio per un’accelerazione dell’azione per realizzare l’unione federale. Tutto è cambiato dopo il vertice europeo del 12-13 luglio scorso, conclusosi con un accordo che ha scongiurato l’implosione dell’eurozona ed ha permesso di avviare il salvataggio della Grecia in cambio di riforme utili alla sua modernizzazione, da attuare sotto stretta sorveglianza europea. Un accordo che ha portato allo scoperto il confronto che da mesi si stava sviluppando tra governi ed istituzioni europee e nazionali su se e come proseguire nella costruzione europea. Chi ha cercato di spostare l’attenzione su un confronto ideologico destra-sinistra, austerità-sviluppo, Europa del Nord-Europa del Sud, giocando cinicamente sulla pelle dei greci, ha perso. Come ha alla fine ammesso uno dei protagonisti della battaglia degli slogan scatenatasi attorno alla crisi greca, come il premio Nobel Krugman, che ha dichiarato di aver avuto uno choc dalla conclusione del negoziato dell’Eurogruppo e di non aver sostanzialmente capito che cosa e perché fosse successo quel che è successo. Il fatto è, come ha sottolineato Sabino Cassese, che i comportamenti dei Capi di Stato e di governo risultano incomprensibili se non si considera che nella pur imperfetta Unione europea ancora intergovernativa la cessione di sovranità che ha accompagnato la moneta unica (e non solo) ha creato nei fatti una questione di legittimazione e accountability che lega i governanti non solo ai propri governati, ma anche agli altri membri dell’Unione: “I governi nazionali non sono più responsabili solo nei confronti dei loro popoli, ma anche nei confronti dei governi (e, indirettamente, dei popoli) degli altri Stati europei. Se l’Unione è una associazione a mani congiunte, può dettare regole di comportamento per tutti i suoi membri, e richiedere di rispettarle. Per cui è sbagliato parlare di sovranità ferita e di democrazia umiliata, lamentare che l’accordo non è tra eguali, evocare i protettorati, sollecitare l’orgoglio nazionale. Al fondo, era proprio questa duplice responsabilità che volevano i padri fondatori dell’Europa: ritenevano che la legittimazione popolare non bastasse, che la democrazia andasse arricchita, come accade quando si entra in associazione con altri e si assumono regole comuni che tutti debbono rispettare” (Corriere della Sera, 15 luglio). Anche se in diversa misura, Tsipras, Merkel e Hollande e gli altri leaders si sono dovuti piegare a questa logica.
II. Gli obiettivi da realizzare
L’attuale quadro istituzionale europeo è inadeguato per governare l’euro e l’economia dell’eurozona, né ha gli strumenti per impedire che nuove crisi come quella con la Grecia rischino di mettere in pericolo l’intera costruzione europea. La condivisione di sovranità in settori cruciali come quello della fiscalità e del bilancio è ancora del tutto insufficiente: lo ammettono tutti, tranne i nostalgici delle monete e delle sovranità nazionali. Al punto che il tema della creazione di un governo e di un bilancio per l’eurozona, dell’unione fiscale, della creazione di istituzioni e meccanismi per promuovere la solidarietà, sottoposti ad un controllo democratico da parte del Parlamento europeo, è ormai entrato nell’agenda di governi e ministeri. Basti considerare le dichiarazioni fatte dal Presidente Hollande e dal Primo Ministro francese Valls il 14 ed il 19 luglio, e quelle del Ministro Schaeuble a cui si è fatto cenno all’inizio -, ma anche di importanti esponenti di governo; come pure alle prese di posizione deii ministri dell’economia Gabriel, Macron e Padoan; fino ad arrivare all’appello di esponenti sindacali e del mondo produttivo francese (Le Monde – 22 Luglio 2015 - Pour une Europe plus solidaire). Ma indicare i buoni obiettivi da perseguire non basta
III. Sciogliere il nodo della sovranità
Bisogna collegare la realizzazione dell’unione fiscale ed economica ad atti coerenti con gli obiettivi che si dice di voler perseguire, e che vadano nel senso del superamento della sovranità nazionale per quanto riguarda sia gli strumenti di governo, sia di controllo democratico. Altrimenti non sarà mai possibile compiere il necessario salto quantico istituzionale indicato dal Presidente della BCE Draghi per instaurare a breve un governo democratico ed efficace dell’euro. Ma su questo terreno, come è noto, finora si è manifestata una forte opposizione da parte della Francia. Si tratta di un’opposizione storica, che è servita spesso anche come alibi per molti governi per non fare il salto federale decisivo. Un’opposizione con la quale ha dovuto confrontarsi subito Jean Monnet: “Non cerchi di convincerci”, si sentì rispondere dagli alti funzionari del Ministero degli esteri francese ai tempi della CECA e della CED, “sa molto bene che il nostro mestiere consiste nel difendere la sovranità nazionale (1951)” (p. 388 Mémoires). Ma la realtà dei fatti – e la prospettiva di perdere ancor più influenza e potere in assenza di un’iniziativa – ha spesso imposto alla Francia di rinnegare alcune delle sue certezze, per cercare di volta in volta di non essere emarginata nel quadro europeo o di perdere ulteriore influenza e potere di iniziativa. Come testimoniano i documenti interni resi pubblici dal Ministero degli esteri francese sei anni fa, almeno altre due volte la Francia, sia per il particolare momento politico-storico, sia perché dalla società e dagli altri paesi erano giunti segnali inequivocabili sulla necessità di procedere sulla strada della costruzione dell’unione, ha invertito la rotta rispetto alle posizioni che aveva difeso fino a quel momento. È il caso dell’elezione diretta del Parlamento europeo. Agli inizi degli anni settanta, i Presidenti francesi Pompidou prima e Giscard d’Estaing dopo, fecero inaspettatamente cadere il veto francese all’elezione diretta del Parlamento europeo: “occorre uno choc”, spiegava il documento predisposto dal Centro di analisi politica del Ministero degli esteri in vista dei vertici europei del 1973 e del 1974, “che dissipi la sensazione dell’impasse e che faccia apparire come verosimile la creazione in un prossimo avvenire di un potere politico europeo… Per questo occorre domandarsi seriamente se una evoluzione della nostra posizione, finora completamente negativa, sul problema dell’elezione dell’Assemblea parlamentare europea a suffragio universale non sia da prendere in considerazione”. Successivamente, alla fine degli anni ottanta, quando si trattava di dare il via alla moneta unica, sempre in vista di un altro vertice europeo alla vigilia della caduta del muro di Berlino, la cellula di riflessione politica del Ministero degli esteri francese consigliò al Presidente Mitterrand: “La logica dell’integrazione spinge verso il federalismo. Se gli Stati membri vogliono inventare un altro modello, devono farlo molto in fretta. Il Presidente della Commissione, da parte sua, ha già scelto: nel suo discorso di Bonn, il 5 ottobre scorso, ha insistito sul fatto che l’architettura europea è di ispirazione federalista; riprendeva il 7 ottobre nel discorso a Bruges lo schizzo del suo progetto politico («è tempo di far rinascere l’Europa dell’ideale»); l’Agenzia Europa precisava a proposito di Bonn, per chi non l’avesse capito, che mai in un discorso del Presidente Delors, il termine «federale» era comparso altrettante volte… In queste condizioni, perché il futuro trattato sull’Unione Economica e Monetaria non potrebbe arricchirsi di disposizioni istituzionali?” (1). Quello che è successo nel 1973 per il Parlamento europeo e nel 1989 per la moneta europea potrebbe e dovrebbe ripetersi oggi in una situazione di inevitabile indebolimento economico e politico della Francia rispetto ad una Germania riunificata e in un quadro mondiale profondamente mutato. Ma dovrebbe avvenire sul terreno di un ripensamento della posizione francese, ma anche degli altri paesi chiave come la Germania e l’Italia, sulla questione della sovranità.
È su questo terreno che nei prossimi mesi si misurerà il grado di affidabilità e credibilità delle azioni dei governi, delle istituzioni e delle classi politiche. Infatti sarà solo a partire dalla disponibilità di cedere ulteriore sovranità al livello europeo che si potranno affrontare e sciogliere davvero i nodi della realizzazione dell’unione fiscale ed economica e del controllo democratico del governo dell’euro da parte degli eletti nell’eurozona al Parlamento europeo. Anche questo proposito, il confronto è ormai aperto: nelle sue ultime dichiarazioni il Presidente della Repubblica francese non ha sciolto le ambiguità francesi sull’ipotesi di creare una camera di rappresentanti dei parlamenti nazionali, cioè di eletti di secondo grado (come prima del 1979) per controllare il futuro governo dell’eurozona. Ma, come è facile intuire, in questo modo la legittimazione della sovranità popolare resterebbe in campo nazionale. Fatto questo inconciliabile con l’esigenza di un controllo europeo di un vero governo europeo.
IV. Agire come un Jean Monnet ed un Altiero Spinelli collettivo
Nel momento in cui il problema all’ordine del giorno della politica europea torna ad essere quello di promuovere un concreto piano per il rilancio politico istituzionale dell’eurozona, si ampliano i margini d’azione per battersi per l’unione federale. Questo non significa che i populismi e l’euroscetticismo sono stati sconfitti. Ma, proprio a seguito di quanto è successo con la crisi greca, chi si porrà nell’ottica di agitare la prospettiva della disgregazione dell’Europa e dell’uscita dall'euro non potrà farlo promettendo ai cittadini un futuro di benessere e progresso per il proprio paese: evocare l’uscita dall’euro significa evocare chiusura di banche, uscita dai circuiti di protezione finanziaria internazionale, fantasmi di colpi di Stato – come emerge dai folli programmi discussi in Grecia da parte di chi sognava il ritorno alla dracma –, mettere in pericolo l’ordine finanziario, sociale e politico di un paese e dell’Europa. Il tutto nella convinzione, ormai diffusa, che è impossibile mantenere lo status quo.
Il tempo per agire è tuttavia ridotto. È stato il Presidente Juncker a ricordarlo, alla fine del negoziato greco, quando ha ammonito che risolvendo la crisi greca gli europei hanno guadagnato un arco temporale di relativa tranquillità di soli tre anni.
Questo tempo deve essere sfruttato dal MFE e da tutti coloro i quali sono convinti della necessità di fare l’unione, per propagandare e sviluppare ad ogni livello le rivendicazioni della Campagna per la federazione europea (si vedano la Petizione sull’economia ed il suo documento di accompagnamento e la Petizione sulla PESC). Il tutto in un’ottica europea, promuovendo iniziative innanzitutto in Francia e Germania. La segreteria e la presidenza nazionali del MFE continueranno a rivolgersi al governo ed ai leaders delle forze politiche italiani per stimolarli a prender posizione nei confronti degi schieramenti che si vanno delineando in campo europeo. Ma questo non basterà di per sé a molto se contemporaneamente non ci sarà una mobilitazione ed un impegno da parte di sezioni e militanti per usare gli strumenti ed i documenti della Campagna, approvati a larghissima maggioranza dagli organi del MFE. Strumenti e documenti le cui rivendicazioni hanno anticipato l’identificazione dei punti chiave su cui è necessario battersi.
Non bisogna dimenticare che il senso dell’azione in questa fase della lotta europea che si è aperta va al di là della tradizionale azione di sensibilizzazione e mobilitazione federalista. Esso si colloca nel solco della convergenza de facto delle linee d’azione monnettiana e spinelliana che si verifica ogni volta che diventa possibile e necessario battersi per fare il salto federale. Nella pratica questo significa concepire l’azione quotidiana di ogni sezione, militante o componente attivo sul terreno della costruzione europea come ad un azione di un Jean Monnet ed un Altiero Spinelli collettivo. In questo modo sarà possibile contribuire da un lato a tenere sul campo gli obiettivi politici strategici della Campagna e, dall’altro lato, a trasferirli progressivamente dal campo delle rivendicazioni a quello del dominio della decisione politica (con la propaganda, la pressione sull’opinione pubblica e sulla classe politica ecc.). Inutile dire che tutto questo richiederà grande lucidità, pazienza e senso della realtà, perché, come Jean Monnet ed Altiero Spinelli avevano intuito all’inizio della loro collaborazione, si tratta ancora di fare “una rivoluzione, con mezzi legali, con uomini di Stato privi di energia, e praticamente senza alcun appello sentimentale” (A. Spinelli, Diario europeo, p. 140, luglio 1952, incontro con Monnet). E l’umiltà di ammettere, come seppe fare Jean Monnet, che non avendo “il privilegio che hanno gli uomini di governo di decidere dell’interesse generale”, occorre “cercare di esercitare questo privilegio per interposta persona” (p. 354-355 Mémoires).
Cogliere la grandezza di questo compito e sfruttare l’occasione che ci offre la Storia di combattere una buona battaglia europea: questa è la sfida da vincere oggi.