Articolo pubblicato su Avvenire

I governi di Austria e Danimarca, convinti che l’Unione Europea non si stia muovendo con efficacia sul fronte dell’approvvigionamento dei vaccini anti-Covid, si rivolgeranno a Israele, al suo "modello", per provare a incrementare il tasso di immunizzazione. Al risorgente euroscetticismo sul fronte sanitario non è forse estraneo il deciso cambio di passo negli Usa della campagna di somministrazione dell’antidoto impresso dalla presidenza Biden, in quanto esso sembra segnalare che la determinazione politica può fare la differenza. Al di là del merito della questione, sulla quale è prematuro dare un giudizio definitivo (il ritmo del rifornimento di dosi andrà aumentando e le penali non avrebbe accresciuto la produzione), il tema che si riaffaccia con forza e vale la pena affrontare è quello della reale capacità della Ue di agire nel modo più efficiente a favore di tutti i cittadini. Suonerebbe meglio dire "i suoi cittadini", ma il punto è proprio questo.

Il capo della Casa Bianca, pur in un Paese federale, ha i poteri per agire in maniera urgente e diretta affinché decine di milioni di persone ricevano il vaccino nel tempo più breve possibile, sia precettando l’industria sia mobilitando l’apparato logistico dello Stato.

La Commissione europea, istituzione sovranazionale di un’entità (l’Unione) non pienamente federale (o forse assai poco federale), non dispone invece di questa capacità.

Avere condotto le trattative di acquisto per i 27 Paesi in blocco ha consentito di evitare dolorose sperequazioni e ulteriori lacerazioni nel fragile tessuto europeo. Eppure, sembra che di fronte alla pandemia che non ha facili né rapide vie di uscita l’attuale "potere" di Bruxelles sia troppo e troppo poco insieme. E certamente la crisi epocale che stiamo attraversando potrebbe insegnare molte cose, se volessimo dare ascolto alla sua lezione.

Un primo risultato, per nulla scontato fino a un anno fa, è stato il NextGeneration Eu, piano di 750 miliardi varato nello scorso luglio. Le mosse concordate in ambito sanitario costituiscono il secondo snodo.

E qui sono emersi i limiti che discendono principalmente dal "metodo intergovernativo" che ancora caratterizza fortemente la Ue. Si tratta della prevalenza degli Stati membri nell’iniziativa e nelle decisioni, che vengono prese solo all’unanimità dal Consiglio europeo in cui si riuniscono capi di Stato e di governo, lasciando al Parlamento di Strasburgo soltanto un ruolo consultivo.

Il metodo intergovernativo è stato nel tempo affiancato e (solo) in parte superato dal "gli stati riman", che vede Commissione (come organo i cui membri non sono rappresentanti degli Stati), Parlamento (unica istituzione eletta direttamente e con funzione di controllo) e Corte di Giustizia interagire nella loro autonomia senza rispondere ai singoli Paesi avendo come obiettivo l’intera Unione. Ora, per essere più federali all’americana, occorre dare ulteriore spazio al metodo comunitario, che non prevede veti, bensì cessioni di sovranità, e maggioranze qualificate al posto della spesso paralizzante ricerca del consenso generale. La domanda è allora se e come cedere altra sovranità all’Europa.

Mario Draghi ne ha parlato nel suo discorso programmatico al Senato lo scorso 17 febbraio. Il suo pensiero è chiaro, anche se nei commenti è stato spesso nascosto dal netto rifiuto del sovranismo (cioè la tendenza opposta, che mira a recuperare sovranità agli Stati nazionali). Ha detto il presidente del Consiglio: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa». Come ha sottolineato Sergio Fabbrini sul Sole24Ore, si tratta di un’idea forte, che si pone, anche in vista della prossima Conferenza sul futuro dell’Europa, come la più rilevante insieme a quella del presidente francese Emmanuel Macron. Mentre Angela Merkel va a terminare il suo mandato a settembre, i leader di Italia e Francia si candidano a essere i punti di riferimento del dibattito.

Entrambi vogliono più Europa, ma con gradazioni diverse. Draghi sembra un federalista prudente, favorevole a «un bilancio pubblico comune» – e all’interventismo di un’istituzione sovranazionale come la Bce, ovviamente –, ma attento a ponderare le competenze esclusive dei singoli Paesi rispetto a quelle affidate agli organismi comunitari. Il capo dell’Eliseo sostiene, d’altra parte, la creazione di un Ministero europeo dell’Economia, con poteri simili a quelli di un ministro di uno Stato federale come gli Usa, e di Forze armate comuni.

Un ministro della Salute che potesse agire per tutta l’Unione, sarebbe la soluzione ai lamentati ritardi di oggi? Probabilmente, i contraccolpi di politiche sanitarie uniformate da Bruxelles sarebbero ben più traumatici dei possibili vantaggi nella lotta al virus. Resta però la necessità di avanzare sulla strada sovranazionale europea, per evitare eurodisillusioni, senza tuttavia rinfocolare le ragioni dei sovranisti (oggi attratti dall’apparente dinamismo della Gran Bretagna post-Brexit). Un percorso stretto, sul quale vale la pena di concentrare attenzione ed energie politiche e culturali. Ne va, non è un’esagerazione, del nostro futuro.

 

  

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