Il cambiamento climatico in atto

Negli ultimi mesi stiamo provando sulla nostra pelle gli effetti dei cambiamenti climatici. Dalle piogge torrenziali e le grandinate che hanno devastato la Germania occidentale e l’Europa continentale, causando più di cento morti, alle centinaia di migliaia di ettari di foreste che bruciano in Turchia, Grecia e Italia, passando per le temperature da record, con picchi di anche 15 gradi sopra la media stagionale, le bolle di calore e il rallentamento della corrente del Golfo: il nostro continente e l’intero globo terrestre sembrano essere proprio entrati in una fase in cui le parole e gli avvertimenti non bastano più.

In tutto il mondo si stanno presentando fenomeni atmosferici estremi con una frequenza mai riscontrata in passato: le previsioni, anche le meno ottimiste, prevedevano ondate di calore di questa intensità non prima del 2040: è evidente che l’equilibrio biologico a cui siamo abituati rischia di essere seriamente compromesso. E la colpa è solo nostra.

Dai quasi 50 gradi sfiorati a Siracusa come in Canada (dove questo sbalzo di temperature sarebbe costato la vita a 200 persone), ai 40 della Siberia, il mese di luglio 2021 è stato secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration (l’agenzia statunitense che si occupa degli oceani e del clima), il più caldo di sempre.

La temperatura rispetto alla media del periodo è risultata in tutto il pianeta superiore di 0,9 gradi (1,5 nell’emisfero settentrionale). A partire dagli inizi del terzo millennio era quasi scontato che ogni anno fosse più caldo del precedente e quindi di tutti gli altri passati e nei fatti 16 dei 17 anni più caldi della storia si sono verificati proprio a partire dal 2001.

Ciò che è stato più drammatico è che tutto quello che è accaduto in questi mesi potrebbe non essere niente di fronte a ciò che ci aspetta: senza una svolta reale, che potrebbe fungere da risposta a questi segnali di avvertimento, rischia di innestarsi una reazione a catena che potrebbe vedere il collasso definitivo del nostro ecosistema, mentre noi continuiamo a estrarre e utilizzare combustibili fossili, inquinando l’aria e rendendo l’effetto serra sempre più evidente.

La pioggia diventa più acida e ricca di microplastiche, inquinando l’acqua degli oceani, nella quale, senza forti prese di posizioni contro il riscaldamento globale, potrebbero sparire molte specie di pesci entro il 2050. Allo stesso tempo il permafrost (lo strato di ghiaccio perenne) si sta sciogliendo a una velocità preoccupante, dalla Groenlandia alle nostre Alpi, facendo salire a una velocità discreta ma costante il livello delle acque e aumentando il dissesto idrogeologico di zone limitrofe e non.

Si limita con l’inquinamento la disponibilità di risorse, come acqua potabile e terreni coltivabili, con un conseguente abbassamento della qualità della vita, ingenti perdite economiche legate ad agricoltura, allevamento e turismo, nonché di vite umane: uno studio di Nature Climate Change ha calcolato che più di un terzo di tutte le morti avvenute tra il 1991 e il 2018 per il caldo può essere attribuito alla crisi climatica, mentre secondo l’OMS, 7 milioni di morti l’anno sarebbero causate dall’inquinamento.

Qualcuno insinua che gli incendi che stanno devastando intere regioni dell’Europa non siano correlati al cambiamento climatico perché di matrice dolosa: questo è vero, ma la velocità con cui si propagano e l’aumento della loro frequenza è dovuta all’aridità e alla siccità del terreno, causa di disequilibri idrici e mancanza di precipitazioni.

Tutto si ricollega: gli incendi producono migliaia di tonnellate di anidride carbonica, invece di far assolvere agli alberi la funzione di smaltire più del 30% di quella che produciamo. Solo in Italia, quest’estate sono bruciati 110.000 ettari di boschi, quattro volte rispetto ai 28.000 arsi in media tra il 2008 e il 2020.

Inoltre, presto potremmo ritrovarci tutti travolti da un fenomeno – già iniziato – di migrazioni di persone, per motivi economici o per tutelare la propria vita dagli eventi catastrofici che coinvolgeranno frequentemente sempre più aree del globo. Le risorse saranno più razionate e dovranno far fronte a una popolazione che continua a crescere: questo potrebbe portare a disordini politici di portata internazionale: il rapporto Unicef stima che 1 bambino su 2 nel mondo sia in pericolo per problemi legati al riscaldamento globale come siccità, inquinamento e inondazioni.

Il 9 agosto è stata pubblicata la prima sezione del sesto rapporto IPCC (vedi specchietto IPCC) (International Panel on Climate Change), firmato da 195 governi e redatto per la prima volta nel 1988 da due rami dell’Onu UNEP (UN Environmental Program) e WMO (World Meteorological Organisation), rapporto che redige regolarmente i rapporti scientifici sulle ultime conoscenze riguardanti cambiamento climatico, riscaldamento globale e il loro impatto, provando a dare una soluzione che ci consenta di superarlo. “Deve suonare una campana a morto per il carbone e i combustibili fossili, prima che distruggano il nostro pianeta” ha affermato il Segretario generale dell'Onu, Guterres, commentando il rapporto, definendolo codice rosso per l’umanità.

Questa prima parte del rapporto, redatta da 234 scienziati, sulla base di 14000 studi (le altre due usciranno all’inizio del 2022) è stato il più dettagliato di sempre ed ha delineato una linea di non ritorno sotto molteplici aspetti, dandoci allo stesso tempo qualche speranza di riuscire a limitare i danni. Il rapporto evidenzia e conferma ciò che già sapevamo: i cambiamenti climatici sono inequivocabilmente causati dalle attività umane. Si concentra, inoltre, su esiti improbabili ma potenzialmente disastrosi dei cambiamenti: ormai non abbiamo più certezze riguardo ciò che ci aspetta. Si può confermare anche la correlazione di tutti questi fenomeni atmosferici al cambiamento climatico: non solo l’aumento delle temperature sarà più rapido, ma aumenterà anche la frequenza di alluvioni, scioglimenti, ondate di calore e incendi. Si specifica inoltre che, anche in caso di inversione di rotta, alcuni effetti del riscaldamento, come l’innalzamento del livello degli oceani già in corso, continueranno per secoli.

Tutto questo testimonia un fallimento della classe dirigente globale, non capace di mantenere gli obiettivi di mitigazione che la comunità internazionale si era data, così come le politiche di adattamento e di prevenzione, che non hanno che causato ritardi, restringendo il tempo di manovra che ci rimane. Ma la stessa classe dirigente per cui rischiamo di raggiungere il baratro ha l’ultima parola: ci vuole uno sforzo congiunto di tutti i Paesi per ridurre le emissioni fino alla neutralità carbonica, condizione raggiunta quando la Co2 nell’atmosfera è sufficientemente bassa dall’essere completamente dispersa. Si dovrebbero quindi emettere 6 miliardi di tonnellate di gas serra l’anno, a fronte delle attuali 50.

Ma questo non basta: è necessario ripensare il sistema turbo-capitalista e lo sfruttamento delle risorse naturali in modo da spostare l’attenzione dalla crescita economica sfrenata a un modello di consumo più attento all’ambiente, che garantisca risorse eque a tutti. Fino ad ora i maggiori esponenti di G7 e G20, così come diversi dirigenti e partiti politici, si sono presentati come veri e propri paladini green, con programmi elettorali all’avanguardia da un punto di vista ecologico, ma nessuno ha avuto il coraggio di smettere di finanziare ricerca ed estrazione di combustibili fossili, i principali responsabili dell’innalzamento della temperatura.

Dal 1880 la temperatura media è aumentata di 1,2 gradi, il che può sembrare poco, quando, in realtà, superare i 2 gradi causerebbe una vera e propria catastrofe globale, con lunghi periodi di siccità che renderebbero molte terre incoltivabili. Secondo la Nasa, continuando così, superermo i 7 gradi nel 2100, contro gli 1,4 che potremmo raggiungere con neutralità carbonica. Per questo nel 2015 i firmatari degli accordi di Parigi si sono impegnati a non oltrepassare questa soglia riducendo le emissioni fino a raggiungere nel 2050 la neutralità carbonica, con 0 emissioni.

La risposta europea: Green Deal e Fit for 55. Tra ambizioni e limiti.

Già nel 2008 l'Unione europea era all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico con una proposta – la proposta 20/20/20 – che mirava per il 2020 a una riduzione del 20% delle emissioni di gas a effetto serra, un aumento del 20% dell'efficienza energetica e un contributo del 20% di fonti rinnovabili nel mix energetico. Gli obbiettivi fissati per il 2020 sono stati raggiunti, ad esempio le emissioni fra il 1990 ed il 2019 si sono ridotte del 23%, coniugando tale riduzione con una crescita economica di più del 60%. Quindi nel 2030, l’Unione Europea si era posta obiettivi più ambiziosi come la riduzione del 40% delle emissioni. Così nel 2019 come previsto dal Regolamento gli Stati membri hanno inviato alla Commissione i loro piani energetici e climatici per il periodo 2021-2030, elencando le loro iniziative e il loro contributo agli obbiettivi climatici sopra citati.

Le istituzioni Europee si sono proposte, con un ambizioso piano, la riduzione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera del 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990), per arrivare alla neutralità nel 2050. A questo proposito è stato pubblicato il Fit For 55 (vedi specchietto), una serie di 13 proposte legislative della Commissione Europea per raggiungere gli obbiettivi del Green Deal, ossia un taglio del un ulteriore 35% del Co2 immessa nell’ambiente in meno di 10 anni. L’obiettivo è ambizioso poiché nel 2020, 30 anni dopo il primo rilevamento, l’UE aveva ridotto del 20% le sue emissioni grazie all’uso massivo di fonti rinnovabili e interventi di efficienza energetica. Il Green Deal prevede una riforma del settore produttivo e agricolo affinché siano in grado di limitare i cambiamenti climatici e si occupi di tutti i danni che possano peggiorare la situazione. L’obiettivo ultimo è raggiungere una diminuzione del 90% delle emissioni entro il 2050.

A proposito di questo piano, occorre evidenziare che - per quanto ambizioso negli obiettivi - presenta dei profondi limiti strutturali. Fit for 55 è un pacchetto di proposte che devono essere ancora discusse da Parlamento europeo e dal Consiglio, quindi il risultato finale sarà un inevitabile compromesso.

Inoltre la maggior parte del pacchetto è costituito da regole per il settore energetico, edilizio e dei trasporti e del governo del territorio che devono essere tradotti da ogni singolo Paese secondo le proprie reali capacità ma non da interventi economici o da investimenti per favorire ricerca e innovazione tecnologica.

Se ci sono interventi economici questi sono costituiti da contributi e incentivi per il mercato privato così da incentivare l’investimento in impianti di ristrutturazione ed efficientamento edilizio e la costruzione di nuovi impianti solari ed eolici.  Interventi infrastrutturali di grande valore come una rete europea dell’energia elettrica o la creazione di campioni europei per il settore green (gli attuali sono infatti le maggiori imprese del settore oil&gas che riconvertono lentamente la loro produzione). Altri progetti non sono presi in considerazione per via della non-capacità dell’Unione Europea di essere un attore primario in grado di prendere decisioni e di realizzarle ma solo un attore sussidiario e ancellare di politiche nazioniali.

Queste tipologie di politiche sono il riflesso della debolezza istituzionale dell’Unione Europea una sorta di sintesi di 27 politiche nazionali con obiettivi comuni concordati all’unanimità.

Da ciò possiamo comprendere la debolezza dell’attuale Unione, che si prefigura essere essa stessa, nella sua struttura, uno scoglio enorme per il green deal e per tutti gli altri progetti ambiziosi.

Partiamo dal presupposto che la tutela dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico siano sfide che i piccoli Stati, come quelli che compongono l’Unione, non possano affrontare da soli. Solo Paesi di dimensioni continentali come gli USA e la Cina da soli assumono decisioni che hanno conseguenze sulla situazione climatica globale. Senza un loro intervento qualsiasi nostra politica sarebbe vana e pertanto occorre collaborare e coordinare quanto più possibile le politiche sul clima. Ma per essere un attore politico che stimola il cambiamento, l’Unione Europea dovrebbe essere un attore credibile in questo gioco del potere mondiale, altrimenti continuerà a subire le politiche e le scelte di questi Paesi. Ad esempio la Cina, che è partita dalla posizione di maggiore inquinatore dell’atmosfera con combustibili fossili e si è ora posta l’obiettivo di raggiungere neutralità carbonica entro il 2060, si può  permettere ora di anteporre l’ambiente all’economia, sia per il gran numero di risorse economiche che dispongono per effettuare una transizione energetica e climatica rispetto a piccoli Paesi come Italia, Germania e Francia, sia perché solo un Paese di quel livello è in grado di far nascere e coordinare un dialogo comune, acquisendone la leadership, con altri Paesi sulle politiche per ridurre l’inquinamento e soprattutto per le enormi risorse (materiali e immateriali) da destinare per la riconversione dell’economia.

Infatti per la riduzione dell’inquinamento e la lotta dei cambiamenti climatici occorrono misure che agiscono direttamente sull’economia e quindi sull’occupazione come nel caso dei settori più inquinanti come quello industriale e dell’agricoltura. Per farvi fronte occorrono misure di sostegno alle imprese e incentivi alla conversione energetica di lunghissimo periodo.

Da ultimo la lotta al cambiamento climatico significa creare un settore energetico da fonti rinnovabili e meno dipendente dalle fonti tradizionali. Il nocciolo della questione è che in entrambi casi l’Unione Europea dipende fortemente dall’estero per gli approvvigionamenti, infatti nel solo caso del solare fotovoltaico il 75% della filiera produttiva è localizzata in Cina.

Conclusioni

Il cambiamento climatico andrebbe affrontato come vogliono fare gli USA, istituendo un vero e proprio stato di emergenza simile a quello dei periodi di guerra: essendo il cambiamento climatico un problema economico, culturale e sociale, andrebbe affrontato in modo globale. Basti pensare che appena insediatasi l’amministrazione Biden ha assunto i primi provvedimenti amministrativi “climate change”, senza passaggio legislativo o della decretazione d’urgenza, perché interessavano aree di alto valore militare e che quindi rischiavano di compromettere la sicurezza nazionale.

I nostri partner di oltreoceano hanno da poco varato una finanziaria monstre di stimolo all’economia del valore di 3500 miliardi di dollari, in gran parte dei quali saranno investimenti infrastrutturali e destinati alla lotta al cambiamento climatico e contro l’inquinamento: l’Europa non potrà mai stanziare fondi così ingenti senza che sia qualcosa in più che una semplice federazione economica.

Le risorse messe a disposizione in modo diretto dall’Unione sono ancora limitatissime e fungono semplicemente da supporto a singole iniziative nazionali, non sempre coordinate tra loro. Unico passo in direzione diversa è stato il Recovery Plan che ha destinato risorse europee a investimenti anche per la riconversione e l’efficieantamento energetico. Questa politica una tantum deve diventare strutturale perché la lotta contro il cambiamento climatico ha bisogno di istituzioni europee autonome dai governi nazionali a partire dal primo ed essenziale potere che determina l’autonomia (e la sovranità) di un Paese ossia del suo bilancio.

Nonostante l’Ue sia l’unico luogo al mondo dove siano riuscite una serie di politiche d’integrazioni, che si sono talvolta rivelate efficaci, i Paesi europei possono essere considerati colpevoli di voler preservare troppo a propria indipendenza, abbandonando così anche la possibilità di assumere una leadership globale. È necessario iniziarsi a porre il problema di quale sia il ruolo che potrebbe avere l’Europa in questa sfida: è arrivato il momento di scegliere se concretizzare l’unione già esistente in una federazione politica dove si ridimensioni il potere degli stati. Il primo passo realmente concreto dovrà essere compiuto nella Conferenza sul futuro dell’Europa: in quella sede deve emergere chiara l’indicazione alle istituzioni europee che senza un potere di bilancio federale non si potrà costruire una vera politica europea per l’ambiente e la decarbonizzazione dell’economia.

Se l’Unione europea vorrà continuare a partecipare attivamente sulle decisioni sul clima ed energia è importante che non smetta di allocare risorse finanziare, anche nel lungo periodo, per supportare tali politiche ambientali.

 

  

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