La nostra Europa federale, sovrana e democratica

Il nostro Movimento giunge quest’anno a celebrare il suo XXX Congresso nazionale, che coincide con l’anniversario degli 80 anni del Manifesto di Ventotene. Quasi 80 anni di vita per la nostra organizzazione, che è riuscita non solo ad avere una continuità decisamente non comune per i piccoli movimenti di avanguardia caratterizzati da un attitudine rivoluzionaria verso il potere costituito, ma che ha anche saputo mantenere la capacità di giocare un ruolo di iniziativa politica nell’ambito del processo europeo, come ci dimostrano il riscontro e l’attenzione che il Movimento continua a ricevere nel rapporto con la classe politica a tutti i livelli.

Se due anni fa il Congresso di Bologna era stato il momento di preparazione della campagna in vista dell’avvio della Conferenza sul futuro dell’Europa, quest’anno a Vicenza, mentre ci accompagnano ancora le manifestazioni e gli effetti della pandemia, e mentre siamo impegnati a condurre all’interno di questo quadro del tutto inaspettato la campagna a lungo evocata e preparata, è il momento di fare il punto sulle nostre priorità, a fronte delle sfide rimaste intatte in tutta la loro gravità, e di ritagliarci uno spazio per riflettere sulla nostra responsabilità politica e sulla nostra battaglia, in riferimento agli obiettivi e alle prospettive con cui dobbiamo misurarci.

Queste tesi non hanno assolutamente la pretesa di essere esaustive, né sul piano dell’analisi, né tanto meno su quello dell’intervento sui temi cruciali della geopolitica europea e mondiale che in questo momento sono al centro del dibattito. L’obiettivo è soprattutto quello di mettere a fuoco, nel contesto complicato in cui ci troviamo, la battaglia politica che dobbiamo condurre in questo momento in cui si è aperta una finestra di opportunità per noi straordinaria, e che ha una durata limitata: un’occasione che dobbiamo saper sfruttare al meglio perché può essere decisiva.
 

Uno sguardo allo scenario internazionale

Difficile, se non impossibile, in questa fase identificare una tendenza chiaro della situazione mondiale. Questi due anni appena trascorsi hanno sicuramente visto fratture profonde e impresso una ulteriore forte scossa al sistema internazionale, senza che si sia delineato ancora un cammino per risolvere le grandi sfide che avevamo evocato in occasione del Congresso di Bologna 1: il rilancio della politica democratica, la costruzione di un nuovo ordine mondiale, il governo della globalizzazione. Da un lato sono ancora più pressanti le minacce che accomunano tutta l’umanità: la questione climatica, innanzitutto, cui si è aggiunta la pandemia; ed è evidente la necessità di governare l’interdipendenza economica. Sono tutte sfide esistenziali che nessun paese può vincere da solo e che si sommano a quella della transizione digitale e alla “madre di tutte le sfide”, quella sociale. Dall’altro ci sono i conflitti di interesse e di potere tra le maggiori potenze, e la corsa a guadagnare supremazia (tecnologica, economica, geopolitica, militare), in primis di USA e Cina, e le mire delle potenze regionali. La divisione e la competizione tendono ad aumentare in questa fase, ulteriormente alimentate dallo sconvolgimento portato dalla pandemia, che non sta spingendo ad unire in modo nuovo e sostanziale gli sforzi, ma viene vissuto come un momento strategico delicatissimo, in cui si costruiscono le basi del potere e della supremazia per i prossimi decenni.

In questo scenario, non c’è neppure più – né per ora si delinea – uno Stato egemone o una coalizione che abbia la forza di guidare il mondo imponendo, in senso culturale e politico, delle regole comuni e organizzandole attraverso le indispensabili istituzioni multilaterali. Crescono di conseguenza i teatri di crisi, che tendono ad allargarsi, perché diventano terreno di guerre per procura dove si misurano le mire delle diverse potenze; e cresce il nazionalismo, che però non fornisce risposte per la situazione di interdipendenza che il mondo vive, ed è quindi incompatibile con qualsiasi ipotesi di progresso, in ogni campo.

C’è, inoltre, una contrapposizione tra sistemi democratici e modelli autocratici, con questi ultimi che continuano a guadagnare terreno; ma la contrapposizione convive con l’interdipendenza economica. Sotto questo aspetto, l’ipotesi di ricostituire due blocchi contrapposti, economicamente e ideologicamente omogenei al proprio interno – come ai tempi della Guerra Fredda – è improponibile. Lo scontro di potere per la supremazia globale con l’URSS non era fondato solo sulla contrapposizione radicale tra due sistemi di valore, e quindi tra due tipi di regime politico, ma anche tra due sistemi economici incompatibili. Oggi la situazione è chiaramente diversa, e il vero problema è piuttosto l’assenza di una visione politica democratica capace di offrire un’indicazione per governare in modo positivo i processi in atto. L’evidente crisi dell’internazionalismo liberale, che pur con tutti i suoi limiti ideologici e le sue automistificazioni aveva permesso di individuare alcuni punti cardine attorno a cui costituire un sistema di rapporti internazionali, non viene compensata dalla nascita di nessun nuovo pensiero positivo.

È, dunque, più che mai il momento in cui è necessario far crescere una visione nuova muovendosi al tempo stesso con grande pragmatismo. Ancora una volta dobbiamo ribadire che questo è il momento dell’Europa, dell’Europa federale, per affermare nel mondo un nuovo sistema di valori e una nuova cultura politica.
  

L’Unione europea e gli Stati Uniti

In questo momento la prima vittima della crisi della propria ideologia di riferimento, l’internazionalismo liberale, sono proprio gli USA. Dopo aver vinto trent’anni fa, culturalmente e politicamente, la competizione contro l’ideologia della collettivizzazione, dell’abolizione della proprietà privata e della libera iniziativa e del mercato, negli ultimi vent’anni la visione della storia fondata sull’ipotesi di un cammino verso l’affermazione della libertà (“La storia ha flussi e riflussi, ma ha anche una direzione chiara, stabilita dalla libertà e dal Suo Autore” - George W. Bush nel suo secondo discorso inaugurale), ha subito sconfitte e fallimenti pesantissimi, che le si sono ritorti contro. La stessa ambizione di poter promuovere la democrazia e i diritti vacilla. Biden stesso l’ha rinnegata rispetto all’Afghanistan. D’altro canto Biden si trova a raccogliere i cocci anche dell’eredità di Trump e della sua personale interpretazione della teoria del realismo politico (“Un elemento centrale di continuità nella storia è la lotta per il potere. Il nostro tempo non fa eccezione”) che gli serviva per giustificare la sua “politica” e il suo America first, a fronte dei costi pagati dagli USA per la sua stessa politica tra gli anni Novanta e il primo decennio degli anni Duemila. Il Paese è profondamente diviso al suo interno, lacerato, e, come spiega Francis Fukuyama sulle pagine dell’Economist, per questo incapace di promuovere un disegno coerente in politica estera.

L’Afghanistan rappresenta la prova più eclatante di questo duplice fallimento. La tragedia di questo Paese si sta consumando mentre sono in preparazione queste tesi. Rimando sotto questo profilo al comunicato diffuso il 23 agosto e alla dichiarazione del Presidente dell’UEF 2. Al di là di tutti gli errori gravissimi commessi durante i vent’anni di occupazione (l’assenza di un progetto vero, la mancanza di capacità politica, persino di volontà politica di gestire la situazione senza lasciare che i vizi di una società corrotta logorassero gran parte degli sforzi), il punto centrale è che gli USA hanno iniziato la guerra con l’obiettivo non solo di sconfiggere Bin Laden e distruggere le basi del terrorismo – come dice oggi goffamente Biden – ma anche di lanciare un grande piano di “conquista” dell’area alla democrazia (e all’influenza americana); un progetto cui anche Obama nei fatti si è allineato. Può servire riprendere una citazione dalla National Security Stratgey del 2006, “The goal of our statecraft is to help create a world of democratic, well-governed states that can meet the needs of their citizens and conduct themselves responsibly in the international system. This is the best way to provide enduring security for the American people”. In questo, gli Stati Uniti hanno subito una sconfitta clamorosa, trascinando con sé, nell’onta, i loro alleati e l’intero “Occidente”. Il cinico disprezzo di Trump per qualsiasi valore lo ha portato a negoziare un ritiro “pacifico” in cambio del ritorno dei talebani – ossia della vittoria del nemico; e Biden ha confermato che gli USA si ritirano dalle guerre che hanno l’obiettivo di portare stabilità, ed è così debole da non riuscire neanche a riconoscere gli errori commessi, arrivando a sostenere che “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata quella del nation-building. Non abbiamo mai pensato di dover costruire una democrazia centralizzata e unificata. Il nostro interesse vitale in Afghanistan rimane lo stesso: prevenire un attacco terroristico sul suolo americano.”

Come possono questi Stati Uniti continuare ad essere la guida del mondo, o anche solo dell’Occidente? Al d là dell’illusione che alcuni Democratici ancora coltivano di continuare ad essere portatori di un sistema di libertà, la realtà è che non hanno più la forza di orientare la propria politica estera sulla base di questa ideologia, come invece è spesso accaduto (senza dimenticare anche qui errori o debolezze) quando si sono assunti la responsabilità di “governare il mondo”. In passato, quando l’internazionalismo liberale era un orientamento condiviso – anche se spesso assunto in modo quasi automatico, senza grande riflessione – esso è stato comunque determinante per indirizzare le scelte della politica americana; la missione era quella di strutturare l’ordine mondiale andando ad impiantare ovunque il seme della liberal-democrazia e del libero mercato. Non potervi più fare riferimento con fiducia, rende gli USA incerti e deboli, privi di una guida teorica, come evidenzia bene Gideon Rose nel saggio con cui segna l’addio alla sua direzione di Foreign Affairs; il problema maggiore è che gli Stati Uniti non hanno risorse per cercare una nuova via per ricostruire la posizione americana e il ruolo degli USA nel mondo. Di fronte alla loro inadeguatezza, il prezzo che dovrà pagare la parte di mondo che ancora fa riferimento agli Stati Uniti rischia così di diventare altissimo. Perché è pur vero che gli americani non sono più egemoni, ma restano pur sempre i più forti; sono sfidati da una nuova potenza, ma sono ancora in grado di condizionare il sistema internazionale; sono (a tratti) consapevoli della necessità di rilanciare il multilateralismo, ma si ritrovano senza riferimenti per come farlo. In più, in tutto questo, soprattutto, a fronte delle sfide globali, si ritrovano con debolezze interne drammatiche; come scrive sempre Gideon Rose, negli Stati Uniti alle ultime elezioni “la democrazia non ha prevalso. Ha avuto fortuna”. La loro leadership incerta e di breve respiro provoca pertanto contraccolpi pericolosi.

Per i loro alleati più importanti, gli europei, la lezione da trarre dovrebbe essere chiarissima in questo quadro, su come sviluppare il rapporto con l’alleato. Anche da un’analisi così schematica e sommaria, appare chiaro il peso determinante che potrebbe avere l’Unione europea per lo sviluppo di una politica estera americana più coerente, già a partire dal fatto di diventare un partner molto più solido e autorevole di quanto non sia in questo momento; ma gli europei si ritrovano a loro volta a metà del guado nella costruzione di una loro identità e di un loro ruolo, per ora ancora ambigui e, per molti versi, inaffidabili. Agli USA resta così solo il tentativo di puntellare le proprie debolezze con il realismo politico, la legge del potere, ma questo orientamento da solo sicuramente non basta per costruire un sistema solido di relazioni a livello internazionale e per capire lungo quali assi cercare di indirizzare la propria politica estera in un mondo così complesso. Un mondo interdipendente ha bisogno di molto di più, per riorganizzarsi, che non un confronto tra interessi nazionali.

Questa difficoltà americana si riflette nei tentennamenti della pur a tratti volitiva politica di Biden, oltre il caso dell’Afghanistan (e delle conseguenze nel tempo che ne deriveranno). Pertanto, non sono giusti, né utili, né i richiami a costruire l’alleanza delle democrazie contro le autocrazie, né il disegno di ricostituire il vecchio concetto dell’Occidente; così come non servono dichiarazioni roboanti che puntano ad “isolare” la Cina. Agli USA servirebbe agire con realismo, senza perdere la bussola del riferimento ai valori liberal-democratici. Le voci interne in questo senso non mancano. Ad esempio, nei confronti della Cina (come ricordano Zack Cooper e Adam Liff in un recente articolo su Foreign Affairs), molti sostengono che sarebbe importante innanzitutto ricostruire una rete di rapporti e alleanze che non sono riusciti a decollare anche per lo stop al TTP, creando le condizioni per strutturare il peso della presenza americana in quel continente ormai strategico: un’agenda positiva e una strategia regionale non pensata semplicemente come reazione nei confronti di Pechino, ma per rafforzare il commercio e sviluppare l’integrazione economica, aumentando anche le risorse in termini diplomatici e militari, contribuendo così attivamente alla pace, alla sicurezza e alla prosperità della regione, che sono anche un diretto interesse americano. Analogamente, a livello globale, gli USA dovrebbero impegnarsi per stringere accordi che sviluppino il commercio e gli investimenti a livello internazionale, rafforzando al tempo stesso la rete delle proprie alleanze, a partire dall’Unione europea.

In questo senso devono spingere gli europei, se vogliono avviare una nuova agenda strategica globale; avendo però chiaro che gli USA non hanno più la forza della potenza leader e, se ce la faranno a consolidarsi nuovamente (anche grazie al sostegno di un’Europa più responsabile e presente sulla scena internazionale), resteranno comunque una potenza tra le potenze. Non verrà da loro la capacità di ridisegnare il nuovo ordine internazionale in un mondo interdipendente che ha bisogno di molto di più, per riorganizzarsi, della fiducia nella libertà individuale e nei meccanismi democratici formali che sono a fondamento dell’internazionalismo liberale di cui gli USA sono stati promotori.
  

Le responsabilità globali dell’Unione europea

L’Unione europea rappresenta veramente un unicum non solo nel panorama politico attuale, ma anche nella storia. Il suo sistema istituzionale è un ibrido su cui si sono spesi, e si continuano a spendere, fiumi di inchiostro per cercare di analizzarne la natura giuridica. Sinora è l’unico sistema che ha fatto convivere per oltre due decenni competenze e istituzioni federali (la moneta e la Banca centrale europea) con la sovranità politica ancora saldamente nelle mani degli Stati membri; ha un funzionamento, nelle materie di sua competenza, di una complessità forse unica. Al tempo stesso, può vantare successi straordinari, a partire dal Mercato unico e dall’Euro, e non è retorica dire – nonostante la gravità delle crisi che attraversa e la evidente necessità di un salto qualitativo del suo sistema decisionale e della sua capacità di azione politica – che continuamente riesce a riconfermarsi come quadro di riferimento imprescindibile per gli Stati membri, i quali devono all’adesione al progetto comunitario tutti i loro progressi. In questa legislatura, l’accelerazione sui grandi piani per la riconversione ecologica e per la transizione digitale – cui la decisione coraggiosa, ancorché legata a condizioni eccezionali, del Next Generation EU ha dato ulteriore impulso – indicano una volontà di portare gli Stati membri ad impegnarsi verso traguardi ambiziosi (benché complessi e non privi di rischi sul piano sociale, rispetto ai quali servirà molta attenzione politica). Non stupisce allora che molti si lascino irretire da ciò che l’UE ha realizzato e si illudano più o meno in buona fede – sia per inerzia, o per volontà di mantenere il potere di controllo politico a livello nazionale, o per scarsa comprensione della natura dei processi politici e soprattutto delle categorie del federalismo, che sono le sole che permettono di capire la natura del sistema istituzionale europeo – che l’Unione europea possa evolvere senza rotture e senza cambi di paradigma verso un’unione politica più stretta. Del resto, è giusto ripeterlo, questa fatica a concepire la natura del salto federale che ancora manca all’UE non può stupire. Basta elencare ciò che il processo di integrazione europea ha portato: 71 anni di pace garantiti da istituzioni comuni (e non da circostanze esterne o interne favorevoli, che per definizione non sono direttamente controllabili), quasi 65 anni di integrazione funzionalista che ha fatto dell’Unione europea la prima potenza commerciale e hanno portato quattro dei suoi Stati membri (includendo in questo caso il Regno Unito) tra i 7 Paesi più industrializzati del mondo, la creazione della moneta unica a suggello della costruzione di un mercato unico che è arrivato a superare i 500 milioni di cittadini e che ha permesso agli europei di affrontare, anche se con fatica, la globalizzazione (che avrebbe schiacciato qualsiasi paese europeo lasciato a sé stesso), la prima e unica elezione diretta dei membri di un Parlamento comune sovranazionale, l’attenzione ai valori, ai diritti, al principio della giustizia sociale, alla sostenibilità ecologica, alla regolamentazione a tutela dei diritti del cittadino-consumatore; e sicuramente l’elenco non è esaurito.

Questa schematica descrizione spiega anche le ragioni della resilienza dell’UE e l’impegno degli Stati più importanti a salvarla nei momenti più bui delle crisi che ne hanno minacciato la sopravvivenza. Spiega anche le ragioni per cui la Brexit, nonostante abbia coinciso con l’apice dell’ondata nazionalista anti-europea, non ha provocato l’effetto “valanga” su cui contavano le forze populiste e nazionaliste. Sostanzialmente tutti gli Stati europei sono consapevoli che senza Mercato unico e senza Euro non hanno le risorse per reggere una competizione internazionale sempre più agguerrita. Per questo è giusto che tra gli obiettivi della politica “ordinaria” delle istituzioni europee e delle forze politiche ci sia quello di rafforzare e sviluppare ulteriormente il Mercato unico, a partire dall’armonizzazione fiscale per impedire il dumping fiscale tra partner europei. Oltretutto questo si accompagna anche con un impegno a livello globale, che rappresenta (in riferimento all’accordo di stabilire un’aliquota minima per la corporate tax al 15%) il maggior successo al momento nel quadro del G20 conseguito da Biden con i Paesi europei che condividono l’obiettivo.

Al tempo stesso, sono evidenti anche le carenze di questa UE. Le competenze più sensibili politicamente restano escluse e anche le modalità di intervento dell’UE rispetto agli Stati membri nei settori afferenti alle competenze comunitarie si traducono sempre in “supporto alle politiche nazionali”. Sono tutte carenze che vanno a comporre l’impotenza che si manifesta clamorosamente nel campo della politica internazionale e che determinano la paralisi dell’UE anche di fronte a sfide interne cruciali che toccano il cuore della sovranità degli Stati. Ancora una volta l’esempio pratico della tragedia afghana evidenzia bene la situazione, e ci fa capire anche quale deve essere la direzione da prendere per superare lo stallo. Gli europei hanno subito la decisione americana in merito al ritiro dall’Afghanistan (che ancora una volta sapevano essere sbagliata nei tempi e nei modi) come spesso è accaduto in questi ultimi vent’anni; nonostante l’operazione in Afghanistan fosse condotta in ambito NATO, sia Trump che Biden hanno agito unilateralmente. In più, con il precipitare della situazione in loco, gli europei si sono trovati nella trappola di essere totalmente dipendenti dalle scelte e dalle decisioni americane, la cui presenza è condizione necessaria anche per evacuare i propri concittadini e i collaboratori afghani, altrimenti abbandonati ad un destino drammatico (che peserà molto sulle nostre coscienze). Da qui gli interventi che chiedono di accelerare nella creazione di un esercito dell’UE, da parte di molti politici europei; interventi ovviamente giusti, ma che restano ambigui se non si chiarisce in quale quadro questo esercito deve essere costituito. Nel quadro attuale, infatti, a chi risponderebbe? Come verrebbero stabilite le sue “missions”? Il Trattato prevede che sia il Consiglio europeo l’istituzione che definisce, all’unanimità, gli indirizzi della politica comune estera e di sicurezza. Chi fa queste proposte cosa ha in mente? Una difesa sulla base del modello dell’integrazione “à la carte”, solidamente intergovernativa, con una molteplicità di cooperazioni strutturate in base ai contesti e ai diversi interessi geostrategici? Che altro progetto è possibile, se non questo patchwork, anche se fosse accolta la proposta di abolire la prassi di decidere per consenso nel Consiglio europeo (che è la sola istituzione che ha potere di indirizzo in questa materia)?3 È evidente che l’impotenza dell’UE nel campo della politica estera e di sicurezza affonda le sue radici nel fatto che la sovranità in questi ambiti resta prerogativa esclusiva degli Stati membri e che i Trattati rispecchiano questa situazione di fatto, che, per essere superata, non necessita solo di piccoli ritocchi formali, ma di un diverso progetto dello stare insieme nel quadro dell’UE. È nell’ambito della condivisione di questo nuovo progetto – ossia del passaggio ad un’unione politica federale – che si può definire il percorso per una politica estera e una difesa europee. Torneremo a breve a sviluppare questo punto nell’ultima parte delle tesi dedicata alla nostra battaglia per l’Europa federale nel quadro della Conferenza sul futuro dell’Europa. Qui il dibattito di questi giorni in seguito alla tragedia dell’Afghanistan ci serve per evidenziare cosa manca a questa Unione europea e a evidenziare che non ci possiamo illudere che il funzionalismo che ha

creato l’UE sia anche in grado di far emergere il nuovo sistema federale, dove il passaggio cruciale diventa la condivisione della sovranità politica (da esercitarsi in base al principio di sussidiarietà) tra l’Unione europea e gli Stati membri nei settori chiave.

L’Afghanistan sta mettendo in evidenza anche un'altra carenza drammatica di questa Unione europea, sempre dovuta al fatto che la sovranità politica resta agli Stati. Si è riacceso il dibattito sulla politica migratoria, in teoria in gran parte di competenza comunitaria, fatto salvo poi che tutti i poteri e gli strumenti (e gran parte delle risorse) necessari per implementarla sono degli Stati. La politica migratoria – ne abbiamo parlato a lungo e spesso – è uno dei peggiori fallimenti dell’UE, che non riesce ad uscire dalla paralisi decisionale a causa del contrasto tra i Paesi membri, che sono investiti in modo diverso dal problema e che si richiudono in un ottuso egoismo, anche a causa della sensibilità politica del tema per l’opinione pubblica. Oggi la reazione sta rischiando di essere la stessa del 2015, di fronte alla tragedia dei profughi siriani, con la differenza che non c’è più una Germania disposta ad accogliere oltre un milione di rifugiati per evitare che gli eserciti dei Paesi che avevano eretto le barriere di filo spinato finissero per sparare sulla folla inerme accampata in cerca di salvezza. Resta invece inalterato il ricatto cui è sottoposta l’UE nella misura in cui affida quasi esclusivamente il controllo die flussi migratori a Paesi terzi. Questa volta, in cui la responsabilità diretta di noi “occidentali”, europei inclusi, è così diretta, non possiamo permetterci di macchiarci nuovamente della colpa di chiudere gli occhi, cercando semplicemente di respingere l’ondata di profughi che arriverà. Anche qui, allora, più che ritocchi ai Trattati sulle regole di voto servono progetti comuni su come si vuole agire come europei; ma anche questi sono possibili solo nella condivisione di un progetto politico che deve tradursi nella volontà di costruire un’unione politica federale. È in questa prospettiva che diventa allora strategico che un gruppo di Paesi inizi a formare un’avanguardia scegliendo di gestire insieme una politica migratoria degna di questo nome – con assistenza in loco, i corridoi umanitari, criteri uniformi di accoglienza condivisa –, e usando a questo scopo gli appositi fondi UE.

L’altro aspetto che per noi federalisti è fondamentale, riguardo ai limiti dell’attuale Unione europea, è quello dell’impossibilità per questo sistema istituzionale incarnato dall’UE di farsi modello per il governo della globalizzazione e paradigma dell’avvio del processo di unificazione mondiale. Sin dal Congresso di Bari, con lo slogan Unire l’Europa per unire il mondo, abbiamo investito culturalmente e politicamente sul valore del progetto federale europeo inteso come primo tentativo di affermare nella storia il principio politico dell’unire i popoli, quale unica vera garanzia di pace. Questo vale a maggior ragione oggi a fronte delle sfide ambientali comuni e della crescente interdipendenza che, se non governata, porta a scontri esiziali, tanto più devastanti, tanto maggiore è l’interdipendenza, unita alla capacità tecnologica. Il dramma sperimentato dall’Europa con la Prima Guerra mondiale, e poi nei trent’anni successivi e con lo scoppio della Seconda, lo testimoniano. Il federalismo è l’unica ideologia che capisce la natura profonda della fase sovranazionale della storia che l’umanità ha imboccato a seguito degli sviluppi della rivoluzione industriale; ed è l’unico pensiero politico che offre la soluzione concreta per il governo dei nuovi processi politici indicando le modalità per rendere possibile l’allargamento dell’orbita della democrazia a livello sovranazionale. Questo avviene attraverso la costruzione di un nuovo modello di Stato sovranazionale, di cui la Federazione europea sarebbe la prima affermazione storica. Come le rivoluzioni liberali, democratiche e socialiste hanno affermato storicamente i principi della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, e le relative innovazioni istituzionali necessarie a questo scopo, così la rivoluzione federale, attraverso la realizzazione in Europa del primo esempio di unione sovranazionale (federale) democratica, può affermare nella storia il principio della vera pace e della solidarietà sovranazionale. Finché l’Europa non farà questo salto la sua funzione di laboratorio per

l’unificazione dell’umanità non potrà dispiegarsi. Oggi l’UE è un modello di integrazione per la creazione di un mercato dalle caratteristiche straordinarie, ma non lo è ancora per quanto riguarda l’unificazione politica. È ferma a metà del guado, nel senso che il progetto di partenza prevedeva l’approdo ad una federazione in tempi brevi, non la graduale costruzione di un mercato sovranazionale; oggi, anche se l’intero processo si è sempre basato sui valori e sul senso dell’avvio originario, dettato dalla volontà di voltare pagina rispetto al nazionalismo, è innegabile che molte idealità si sono perse lungo il cammino, insieme all’obiettivo politico federale, ed ora è più faticoso recuperarli, anche se possiamo contare, come dicevamo, sullo straordinario collante creato proprio dal mercato europeo.

La pandemia, la crisi degli Stati Uniti, la crescente competizione globale, le lezioni della crisi economica e finanziaria hanno ora aperto una nuova possibilità all’Europa di terminare il suo percorso e di approdare al traguardo federale. È in questa prospettiva che si colloca la Conferenza sul futuro dell’Europa. Con fatica, ma anche con inaspettato vigore, la cultura federalista rimasta sotterranea, ma viva proprio grazie al lavoro costante e coraggioso del federalismo organizzato, sta riemergendo. Le circostanze in cui si concretizzano le possibilità di vittoria di una lunga battaglia politica non si scelgono; ma quando si verificano bisogna saperle cogliere, fino in fondo. Ed è quello che dobbiamo fare noi ora, consapevoli sia di avere la responsabilità di non sprecare gli sforzi di chi ci ha preceduto portando avanti per quasi 80 anni questa grandiosa battaglia; sia di dover giocare una partita da cui dipende il futuro dell’umanità, sapendo di essere ancora – come 80 anni fa lo è stato il Manifesto – il punto di riferimento politico-culturale per rendere possibile la nascita della Federazione che cambierà la storia degli europei e dell’umanità.
  

La nostra battaglia per la Federazione europea, il nostro ruolo, le nostre responsabilità 

La grande tradizione culturale e politica del federalismo europeo, che ha compiuto uno straordinario salto con il Manifesto di Ventotene – da cui è scaturito l’impegno politico concreto per la realizzazione della Federazione europea – ci ha sempre fornito nel corso del processo di integrazione europea gli strumenti concettuali per interpretare la natura del sistema istituzionale che man mano si formava sotto la spinta dell’integrazione funzionalista. Tutte le battaglie del Movimento, a partire da quella del Congresso del popolo europeo, per proseguire con quella per l’elezione diretta del Parlamento europeo e quella per la moneta unica, sono state sviluppate partendo dalla consapevolezza della natura confederale delle scelte che hanno portato ai Trattati di Roma e che in essi sono state incorporate. Su questa base, grazie al genio di Spinelli e Albertini e al lavoro del Movimento, i federalisti sono stati il motore sotterraneo dell’evoluzione del processo, riuscendo ad identificare di volta in volta i punti su cui far leva per sfruttare le contraddizioni insite in un’integrazione che avanzava senza intaccare formalmente (e giuridicamente) la sovranità degli Stati e che al tempo stesso la svuotava, rendendo così evidentemente necessarie cessioni di porzioni di potere politico e di sovranità a favore del livello europeo. È quello che Albertini ha teorizzato come il potere di iniziativa del Movimento, l’essenza stessa della nostra ragion d’essere; perché solo un’avanguardia rivoluzionaria dedicata esclusivamente alla battaglia federalista poteva (e può) preparare i passaggi politici che la politica normale tende ad ignorare finché non finisce in un cul de sac che la costringe a dover scegliere tra l’avanzamento radicale del processo, un vero e proprio salto qualitativo, e l’avvitamento in una crisi esiziale. In quei momenti (rari nel corso del processo, che non coincidono con qualsiasi crisi, ma solo con quelle più profonde, in cui le fondamenta del sistema in essere si sono ormai logorate), l’alternativa di natura federale – o che scatena dinamiche che vanno in senso federale – deve essere pronta: matura, come proposta, già circolata nel mondo della politica e della classe dirigente, concreta e capace di cambiare il quadro; se questa proposta non è stata preparata (dai federalisti), essa non esiste nel processo, e la politica cade nel precipizio. La battaglia federalista ha quindi non solo fatto progredire l’Europa, ma ha addirittura salvato l’Europa.

Oggi ci ritroviamo con lo stesso compito. In un momento cruciale della storia del mondo, e quindi dell’Europa, le condizioni che portano gli Stati in un cul de sac si sono manifestate, insieme alla possibilità del cambiamento. È il momento della soluzione federalista, e questa volta sappiamo che sarà decisiva, perché può realizzare l’obiettivo che le conquiste precedenti prefiguravano e hanno preparato. In questi ultimi anni abbiamo individuato, sviluppato e portato avanti la consapevolezza della riforma cruciale che serve all’Unione europea per compiere il salto politico, in termini di potere e sovranità, e che è la precondizione del successo di tutte le altre riforme che riguardano le competenze, i meccanismi decisionali, lo sviluppo di una politica transnazionale. Si tratta dell’attribuzione al Parlamento europeo del potere fiscale, ossia della riforma necessaria per garantire il passaggio qualitativo rispetto alla natura giuridica del sistema europeo. Il potere fscale è la condizione dell’autodeterminazione e dell’autonomia politica delle istituzioni europee rispetto agli Stati membri, e quindi della nascita di un vero governo europeo e dell’avvio della costruzione di una federazione che possa acquisire la competenza anche nel campo della politica estera e di sicurezza, e che possa consolidarsi sulla base del principio di sussidiarietà.

Con le ovvie differenze legate allo stadio di sviluppo dell’UE, questa battaglia era già al centro del lavoro politico che ha portato Spinelli, anche con il sostegno dei federalisti, a concepire tra il 1981 e il 1984 la riforma dell’allora Comunità europea con l’elaborazione del Progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio del 1984. 4 L’UEF, per sostenere l’iniziativa del Parlamento europeo (che il 9 luglio 1981 aveva deciso di preparare un progetto di trattato per la riforma delle istituzioni dell'allora Comunità europea e per la creazione dell'Unione europea) aveva istituito nel dicembre 1981 un Comitato, presieduto da Francesco Rossolillo, per elaborare un progetto di riforma istituzionale della Comunità adattando alle mutate circostanze le Risoluzioni del Comité d'Etudes pour la Constitution européenne (CECE) che nel 1952, sotto la direzione di Spaak, aveva preparato i lavori dell'Assemblea ad hoc e la base della proposta di Comunità politica che doveva completare il progetto della Comunità europea di difesa5 . Come spiegava Francesco Rossolillo al Congresso UEF di Milano nel 1982 6 illustrando i criteri che avevano orientato la rielaborazione delle Risoluzioni del CECE, la strategia federalista si era basata su tre punti cardine: l’elaborazione di un modello federale che fissasse la direzione delle riforme; l’individuazione del minimo istituzionale; l’indicazione della procedura da seguire per la ratifica.

Il modello, frutto come si diceva della rielaborazione delle Risoluzioni del CECE, non era stato pensato in termini astratti (nel senso del miglior sistema di governo in teoria), ma come un sistema istituzionale federale coerente, in grado al tempo stesso di includere l’acquis communautaire, e quindi basato sulla realtà della Comunità europea come si era andata formando. Questo implicava, tra le altre cose, la presa d’atto che le condizioni politiche del momento (l’eterogeneità delle visioni degli Stati membri all’interno della Comunità, le loro profonde differenze, ecc.) rendevano necessarie delle tappe preparatorie alla piena realizzazione del sistema federale (in particolare prevedendo una fase di transitoria di cooperazione intergovernativa nel campo della politica estera e di sicurezza).

Il minimo istituzionale identificava invece le riforme in grado di cambiare la natura dei rapporti di forza tra gli Stati membri e il polo europeo, rendendo quest'ultimo autonomo e quindi in grado di governare direttamente nella sfera delle sue competenze.

L’individuazione di una procedura di ratifica adeguata, infine, era un punto cruciale perché per avere successo la riforma non doveva cadere nella trappola dell’unanimità. Si tratta di un problema peculiare tipico di quando si vuole creare un nuovo sistema di potere: le regole del sistema in essere sono fatte per perpetuarlo, per cui bisogna forzare il sistema. In Europa a questo si aggiunge il fatto che non tutti gli Stati membri sono disponibili a condividere la riforma in senso federale, e che pertanto la regola dell’unanimità in vigore nel sistema cela anche la volontà, da parte dei governi contrari, di impedire agli altri di andare avanti. Per questo nel documento dell’UEF era stato previsto che il nuovo trattato (come poi cercò di fare Spinelli con il suo Progetto di Trattato) prevedesse la regola della maggioranza e fosse inviato direttamente ai parlamenti nazionali per la ratifica, aggirando il passaggio della Conferenza intergovernativa prevista dai Trattati.

Anche oggi ci ritroviamo a dover utilizzare lo stesso tipo di criteri. L’Unione europea nata con Maastricht ha adottato molte delle indicazioni contenute nel Progetto di Trattato, ma, nonostante la nascita dell’Euro, ne ha depotenziato l’aspetto politico, escludendo la nascita di un primo nucleo di potere politico europeo in campo economico, come passaggio per la piena federalizzazione delle altre competenze. In particolare, come concordano ormai moltissimi studiosi, il Trattato di Maastricht ha strutturato la nascita del metodo intergovernativo, stabilendo che le materie al cuore della sovranità dello Stato – che nel nuovo quadro definito dalla fine del blocco sovietico e dalla nascita della moneta unica richiedevano una gestione a livello europeo – fossero “europeizzate” soltanto attraverso il coordinamento intergovernativo. Tutti gli avanzamenti successivi, soprattutto in termini di maggiori poteri di intervento (codecisione) al Parlamento europeo, fino al Trattato di Lisbona incluso, sono stati viziati da questo vulnus che, per le competenze politiche cruciali, lascia esclusivamente agli Stati la sovranità politica. È proprio questo sistema che va scardinato, iniziando a costruire una sovranità politica europea sulle materie che è ormai necessario governare a livello europeo; e il passaggio che apre questa via passa dall’istituzionalizzazione nei Trattati dell’attribuzione di un potere fiscale al Parlamento europeo. Senza questo passaggio – che rappresenta il minimo istituzionale su cui oggi è indispensabile tenere la barra ferma per poter modificare i rapporti di potere tra il livello europeo e gli Stati membri – non si costruisce la sovranità europea. In estrema sintesi: non può esistere un governo politico europeo se non ha il potere di reperire le risorse necessarie per attuare le proprie politiche; questo potere è anche quello che permette di sottrarre le scelte politiche all’indirizzo esclusivo da parte del Consiglio europeo, come invece avviene oggi, e che permette di sviluppare una dinamica politica effettivamente europea; al tempo stesso un governo europeo dotato di potere di imposizione diretta sui cittadini e sulle imprese non può essere disgiunto da un controllo democratico pieno, cosa che comporta un’evoluzione istituzionale in seno all’UE che rafforzi il controllo politico e il rapporto diretto tra il Parlamento e la Commissione, aprendo anche sotto questo aspetto nuovi spazi per una vera dinamica politica transnazionale di dimensione europea.

Vi rimando, su questo tema, per non ripetere cose già più volte dette e sviluppate in tanti scritti, ai testi di approfondimento prodotti in questi due anni, che trovate sulle nostre pubblicazioni. Alcuni documenti sono riportati alla fine di questo documento, insieme ad un elenco dii comunicati e dichiarazioni. Aggiungo che, chi volesse rivedere le Tesi pre-congressuali preparate nel 2019 – che restano complementari a quelle di quest’anno e che si possono leggere anche a partire dal link riportato nella nota 1 o nella breve bibliografia in fondo – può ritrovare anche in quel documento i fondamenti di questa analisi. È stata la capacità di focalizzarci già nel 2019, in vista della Conferenza sul futuro dell’Europa, su questo punto preciso e cruciale che ci ha permesso di cogliere subito l’opportunità politica che Next Generation EU rappresenta per l’avanzamento del processo europeo, facendo proposte puntuali, che ci hanno fatto guadagnare grande attenzione e consenso, e quindi capacità di influenza, presso la classe politica, così come all’interno dell’organizzazione federalista europea.

Gli altri due punti determinanti da chiarire per la nostra strategia, riguardano il modello istituzionale, inteso nel senso concreto con cui è stato definito nel 1982 dall’UEF, e la procedura di ratifica. Per quanto riguarda il primo, la configurazione istituzionale dell’Unione europea si è molto più definita a partire dal Trattato di Maastricht, e l’acquis communautaire ha oggi, rispetto ai primi anni Ottanta, un peso molto maggiore, e prefigura ormai abbastanza chiaramente come deve strutturarsi il rapporto politico tra Parlamento e Commissione. La stessa battaglia in corso sulla riforma elettorale per l’elezione del PE e del Presidente della Commissione, con la creazione di liste transnazionali – ormai una battaglia politica identitaria delle forze che vogliono affermare il principio di una politica democratica europea transnazionale – conferma questa tendenza. Resta ancora abbastanza aperto il confronto sulla scelta tra un modello parlamentare (previsto nella proposta dell’UEF e nel Trattato Spinelli) ed uno presidenziale, che viene a volte evocato con l’idea di eleggere un Presidente unico per la Commissione europea e per il Consiglio europeo. Penso che in questa fase sia ancora presto per ritenere questo dibattito davvero cruciale. Il passaggio preliminare da fare nell’Unione europea, come anche in qualche modo la Conferenza sul futuro dell’Europa spinge a fare, riguarda la nuova natura federale dell’assetto istituzionale europeo con l’attribuzione a livello europeo di poteri, risorse e strumenti con le relative modifiche nel sistema decisionale. È da queste riforme, che devono approdare all’abolizione del diritto di veto come suggello di un governo europeo federale democratico, che passa oggi la battaglia per l’Europa federale. Il confronto sul modello di governo sarà piuttosto oggetto di un passaggio successivo.

Per quanto riguarda invece la fine dell’unanimità, questo tema investe, oggi, come quarant’anni fa, anche la questione della procedura di ratifica. Il vincolo della ratifica all’unanimità previsto oggi dai Trattati, e disciplinato dall’articolo 48 TUE, costituisce un enorme ostacolo alle riforme istituzionali. Il problema politico che nasconde è, come è sempre stato dall’ingresso della Gran Bretagna, la diversa visione del progetto europeo che hanno gli Stati membri. Nonostante la Brexit, questo rimane un nodo cruciale, perché nell’UE a 27 permangono tre posizioni molto eterogenee: i) quella di alcuni Stati fortemente nazionalisti – che addirittura sfidano il principio dello Stato di diritto e alcuni principi fondamentali del processo di integrazione, contando sulla difficoltà di questa Unione a sanzionare in modo efficace i loro comportamenti teoricamente incompatibili con la loro stessa permanenza nell’UE –; quella degli Stati che sostengono la visione di un’Europa integrata tramite il mercato, ma che deve rimanere priva di ambizioni (e capacità) politiche; e quella del gruppo di Stati che invece da tempo sente la necessità di far compiere un salto politico all’UE, e condivide, in tutto o almeno in parte, le categorie del federalismo. In quest’ultimo gruppo di Stati sono presenti in questo momento, convintamente e attivamente, il governo italiano con Draghi, e quello francese con Macron, insieme ad alcuni Paesi soprattutto del Sud Europa; la loro alleanza è determinante per

l’evoluzione della Germania, che dovrà chiarire la propria posizione (che rimane dirimente) all’indomani delle elezioni. Al momento si tratta di un gruppo di Stati minoritario, anche se può contare sulla sinergia con le forze più avanzate all’interno del PE, che deve porsi l’obiettivo di fungere da avanguardia per aprire la via al cambiamento dei Trattati. In questa ottica resta fondamentale, nel dibattito attuale – che rimane spesso ambiguo – non cadere nella confusione tra proposte volte a promuovere integrazioni differenziate di natura intergovernativa (sulle politiche) che vanno nel senso dell’Europa à la carte, e integrazioni frutto della condivisione di un progetto politico di unificazione di natura federale e di una strategia consapevole. Le prime, anche laddove si accompagnano alla rivendicazione del voto a maggioranza, perpetuano e rafforzano il sistema intergovernativo; le seconde sono passaggi transitori utili per preparare il terreno della creazione di un sistema federale. Per questo la cartina di tornasole per capire se si è di fronte ad una vera avanguardia federale è la condivisione dell’obiettivo – ormai pienamente maturo, come abbiamo tante volte spiegato – di un’unione politica in campo economico con l’attribuzione del potere fiscale al PE, come base per il nuovo sistema federale. Sotto questo aspetto oggi resta valida la stessa dinamica prevista dalla proposta di riforma dell’UEF e dallo stesso Trattato Spinelli della piena unione in campo economico e della fase di transizione nel campo della politica estera e di sicurezza – dove però la cooperazione diventa capace di trasformarsi in azione anche efficace perché fondata su un progetto e una visione comuni e sulla volontà di costruire una vera unione politica. In questo quadro, l’avanguardia che, insieme al PE – sfruttando l’occasione della Conferenza sul futuro dell’Europa –, dovrebbe sostenere la riforma dei Trattati, deve necessariamente includere nella sua strategia la richiesta di procedere a maggioranza anche per la ratifica. Sotto questo aspetto, anche oggi la strategia dell’invio diretto ai Parlamenti nazionali immaginata e tentata quarant’anni fa, sembra la più efficace, a maggior ragione perché nella Conferenza siedono anche i rappresentanti dei parlamenti nazionali, con cui è possibile iniziare a costruire alleanze strutturali; e bisogna addirittura, in caso di necessità, essere pronti ad azioni di rottura .

Il nostro compito politico come federalisti è lavorare innanzitutto perché non si confondano mai le due inconciliabili proposte “di avanguardia”, e si chiariscano sempre meglio le proposte che portano all’unificazione federale. Sotto questo aspetto abbiamo un ruolo sia politico che culturale importantissimo, considerando il rapporto di collaborazione che abbiamo instaurato tramite l’UEF con l’avanguardia all’interno del Parlamento europeo (che fa capo al Gruppo Spinelli), e in Italia con l’Intergruppo parlamentare e i rappresentanti nazionali all’interno della Plenaria della Conferenza sul futuro dell’Europa. Tramite l’UEF abbiamo canali che arrivano ai governi francesi e spagnolo, abbiamo un’influenza in Germania, mentre in Italia (diventata più che mai cruciale sia per il peso della figura di Draghi, sia per convincere la Germania della utilità di un’unione politica, dimostrando che la “buona Europa” della solidarietà fa cambiare in meglio i paesi più problematici molto di più dell’austerità) sappiamo di poter contare su rapporti politici consolidati, come dimostra una volta di più la presenza del Presidente Mattarella a Ventotene per gli 80 anni del Manifesto di Ventotene. Questo significa che la nostra interlocuzione con i decisori politici è determinante, e per questo la nostra campagna e le nostre posizioni devono essere coerenti e all’altezza del momento politico.

Con l’autunno la nostra campagna deve quindi ripartire, forte di una consapevolezza ulteriormente accresciuta e capace di slancio ancora maggiore. Abbiamo alle spalle due anni intensissimi, di campagne di successo, a livello nazionale e sul territorio: costituiscono un patrimonio su cui dobbiamo ulteriormente investire, per preparaci a promuovere le “100 Assemblee per la Conferenza sul futuro dell’Europa”.

Il Congresso sarà il momento per raccogliere le forze per lanciare, in vista degli ultimi mesi della Conferenza, questa grande campagna, con l’orgoglio di portare il nostro contributo in un momento storico e politico decisivo e al tempo stesso con la consapevolezza della nostra fortuna di nani sulle spalle dei giganti, e quindi con la giusta umiltà, indispensabile anche per avere la capacità politica di essere in sintonia con le forze che condivideranno con noi questa battaglia.

Pavia, 27 agosto 2021

 

  

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