Sembra il solito teatrino della politica europea, con un gioco delle parti che, nonostante i fuochi d’artificio, in fondo non intende scontentare nessuno. Eppure, qualcosa si sta muovendo a Bruxelles per la creazione di un ambiente favorevole (o quantomeno non apertamente contrario) al rafforzamento dell’industria europea in particolari settori dove la competizione è globale.

A metà novembre la Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager e il Commissario al mercato interno e i servizi Thierry Breton si sono scontrati sul tema della sovranità europea nella produzione di microchip. Al netto delle retoriche istituzionali, che li chiamano a svolgere ruoli diversi, sembra tuttavia che stiano finalmente trovando delle chiavi di convergenza sul tema dei campioni industriali europei.

Un tema annoso, che vede da anni la contrapposizione strisciante fra l’esigenza di favorire in Europa la creazione di industrie capaci di reggere la competizione globale e quella di difendere i consumatori europei dagli abusi derivanti da posizioni di monopolio.

Il passaggio più clamoroso di questa vicenda, negli scorsi anni, era stata la decisione della Vestager sulla fusione Alstom-Siemens, bloccata nel febbraio 2019 dalla Commissaria alla concorrenza per il potenziale rischio di distorsione del mercato interno. Comprensibile, se si ritiene che l’Europa sia un’isola che galleggia in un empireo a sé, avulso dal resto dell’universo, e che il mercato di riferimento delle imprese sia unicamente quello europeo, anche in un settore come quello delle infrastrutture e dei vettori ferroviari ad alta velocità nel quale le commesse (e quindi il mercato di riferimento) sono invece palesemente globali.

Una vicenda che aveva provocato la violenta reazione dei governi francese e tedesco, i quali pochi mesi dopo avevano firmato il documento A Franco-German Manifesto for a European industrial policy fit for the 21st Century (che seguiva la Dichiarazione di Meseberg dell’anno precedente), nel quale Francia e Germania ribadivano la necessità e l’urgenza di procedere oltre nella creazione di colossi industriali europei, proprio nell’ottica di partecipare alla pari alla competizione internazionale. Chiedendo in particolare di rivedere la normativa sugli aiuti di stato.

Già la dichiarazione di Meseberg conteneva passaggi particolarmente interessanti, perché ricordava come la politica industriale sia una componente ineludibile di una politica estera e di sicurezza. E soprattutto indicava, al secondo punto degli obiettivi di competitività, come sia necessario: “sviluppare una nuova prospettiva strategica a medio-lungo termine per la crescita sostenibile e l'occupazione a livello europeo, attraverso una legislazione che consenta l'innovazione, un ulteriore rafforzamento del mercato unico dell'UE e la promozione a livello globale della competitività dell'industria”. Come dire, la salvaguardia del mercato unico europeo dipende (anche) dalla capacità di essere innovativi e competitivi sul mercato mondiale.

Il nuovo documento congiunto era ancora più esplicito ed ambizioso, invitando ad investire per innovare su scala europea, con uno sforzo finanziario e di coordinamento da parte delle istituzioni europee, e diventare, ad esempio, “leader nell’intelligenza artificiale” e nelle “innovazioni di frontiera”.

Avevamo scritto in quell’occasione una nota (Il Federalista, 2019, 1-2) in cui cercavamo di spiegare che il problema della Commissione nasceva da un’errata interpretazione del concetto di mercato di riferimento, necessariamente articolato dalla dimensione locale (si pensi ai mercati rionali) a quello globale (come nel caso di Alstom e Siemens). Che invece la Commissione appiattiva sulla sola dimensione continentale.

Niente di nuovo, sia chiaro. Era dai primi anni Novanta, quando la competenza sul mercato interno divenne appannaggio esclusivo della Commissione, che la ‘politica industriale’ ha cessato di essere tale e si è appiattita sulla mera difesa della concorrenza (sul mercato interno, naturalmente, non su quello globale).

Eppure, da quel momento è partita proprio una revisione del concetto di “mercato di riferimento” che guida l’adozione delle misure a favore della concorrenza. In particolare, è stata avviata nel marzo 2020 la formale revisione della sua definizione, che ha condotto nel luglio 2021 a modificare il concetto di relevant market. Alla conferenza stampa di presentazione del nuovo documento, Vestager aveva affermato: “Dobbiamo analizzare il mercato ed i confini del mercato nel quale le imprese competono. La Market Definition Notice è in questo senso di grande aiuto”. Ecco quindi comparire, potenzialmente, l’idea di mercati multilivello, che dipendono da ciascun settore industriale e che vanno di volta in volta analizzati e definiti.

Tutto il contrario della visione ristretta sulla base della quale due anni prima la Commissaria aveva bloccato la fusione Alstom-Siemens. In realtà, l’errore era stato compiuto già nel 1997 (all’epoca della prima codificazione operativa da parte della Commissione del concetto di mercato), quando era evidente che le transizioni verde e soprattutto digitale stavano spostando la competizione e l’innovazione in alcuni mercati sul piano globale. Non a caso, gli USA si sono affermati come potenza egemone, abbondantemente agevolati da generosi aiuti di stato (in forme magari non propriamente esplicite e trasparenti); mentre l’Europa è rimasta indietro.

L’ultimo tassello di questa vicenda è stato proprio l’acceso dibattito del novembre scorso, quando Breton, col supporto della Presidente Ursula von der Leyen, ha fortemente caldeggiato la creazione in Europa di una mega-impresa di produzione di microchip ad alta tecnologia, per evitare di subire ancora una volta l’interruzione potenziale delle catene del valore che negli ultimi mesi hanno fatto schizzare il costo dei chips alle stelle, oltre che provocare strozzamenti negli approvvigionamenti. Un’industria sicuramente strategica, sempre più in futuro, dalla quale dipendono la maggior parte delle tecnologie che oggi utilizziamo nella nostra quotidianità.

E Vestager che ha continuato a perorare la causa dell’antitrust, delle regole sulla concorrenza e quindi a sostenere l’idea di assicurarci piuttosto approvvigionamenti con catene del valore accorciate e più sicure rispetto al passato; quindi acquistando microchip da paesi che li producono a costi inferiori rispetto a noi; e che hanno ormai maturato esperienze e tecnologie sulla frontiera delle possibilità produttive.

Ma al di là della vicenda specifica dei microchip, sulla quale esistono buone ragioni da entrambi i lati del dibattito, pare evidente che la pandemia ha modificato la percezione sulla necessità di costruire una qualche forma di sovranità industriale europea. E che le posizioni all’interno della Commissione si stanno progressivamente avvicinando.

Quasi trent’anni dopo il Libro Bianco della Commissione Delors, che già nel 1993 delineava lo spazio logico e politico per una politica dell’innovazione dell’industria su scala continentale, chissà che finalmente l’Europa inizi a comprendere la necessità di anticipare i tempi ed i processi storici, piuttosto che, inevitabilmente, trovarsi nella posizione di subirli.

  

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