Immagino che la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche del 25 settembre 2022 sia stata considerata come una grave sconfitta da chiunque creda nella causa dell’Europa federale. La salita al potere di una coalizione di centro-destra a trazione sovranista è tanto più pericolosa perché è avvenuta in un momento cruciale del processo di integrazione europea in cui, grazie all’iniziativa e alle capacità di leader quali Macron e Draghi, e all’impegno di molte forze della società civile, tra cui il MFE e l’UEF, i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa avevano finalmente portato alla concreta possibilità di una riforma dei Trattati UE su questioni chiave in tema di fiscalità, estensione del voto a maggioranza in seno al Consiglio e rafforzamento del Parlamento europeo. Il successo di forze euroscettiche in un Paese fondatore come l’Italia potrebbe rimettere tutto in discussione, facendo perdere all’Unione un’occasione storica per riformarsi e rafforzarsi, proprio quando, a causa delle crescenti crisi interne ed esterne, ce ne sarebbe più bisogno.
Il passato politico di Georgia Meloni d’altra parte non sembra permettere di farsi molte illusioni: il Presidente del Consiglio in carica non ha mai avuto simpatie per il processo di integrazione europea nella misura in cui esso ha determinato un’importante erosione della sovranità nazionale: l’euro è stato criticato come una “moneta sbagliata” da cui uscire in modo coordinato e controllato con gli altri Stati; la Brexit è stata descritta come un atto di liberazione nazionale da imitare; il recovery fund è stato visto con scetticismo e sospetto, rivendicando che in realtà si tratterebbe di “soldi nostri” dal momento che l’Italia è un contribuente netto al bilancio dell’UE. Negli ultimi anni, il posizionamento del partito di Giorgia Meloni sull’Europa si è meglio definito: Fratelli d’Italia ha aderito al partito dei Conservatori e riformisti europei, un gruppo di forze politiche nazionaliste, unite dalla loro opposizione al federalismo europeo e favorevoli ad un’integrazione che non sia troppo invadente negli affari interni dei singoli Stati. Ha quindi stretto alleanze controverse con partiti quali lo spagnolo Vox, nostalgico del franchismo, e Giustizia e libertà, forza di governo in Polonia, autore della svolta illiberale del Paese a partire dal 2015. Più volte Meloni ha rivendicato la sua adesione all’idea di Europa propria del gollismo, ovvero al modello confederale dell’alleanza delle grandi nazioni, che decidono di cooperare in modo molto stretto su temi cruciali, pur mantenendo la loro sovranità. Prova di ciò è la proposta, confermata anche in campagna elettorale, di riaffermare il primato del diritto nazionale su quello europeo, il che, ricordiamolo, avrebbe l’effetto di sgretolare l’integrità e l’efficacia dell’ordinamento giuridico UE e quindi delle sue politiche.
Al di là di quello che Meloni abbia auspicato e detto in passato, la domanda più rilevante da porsi è: cosa farà adesso che è al governo? Il suo discorso alla Camera lascia intravedere due approcci diversi che dovranno trovare una sintesi. Da una parte, essa ha ammesso che: “l'Unione Europea per noi è la casa comune dei popoli europei e come tale deve essere in grado di fronteggiare le grandi sfide della nostra epoca, a partire da quelle che gli Stati membri difficilmente possono affrontare da soli. Penso agli accordi commerciali, certo, ma anche all'approvvigionamento di materie prime e di energia, alle politiche migratorie, alle scelte geopolitiche, alla lotta al terrorismo”. C’è altresì consapevolezza dei limiti delle risposte nazionali ai problemi comuni: “l'assenza, ancora oggi, di una risposta comune lascia spazio alle misure dei singoli governi nazionali, che rischiano di minare il mercato interno e la competitività delle nostre imprese”. Insomma, Meloni sembra adottare un approccio positivo verso il processo di integrazione: l’Europa viene accettata nella misura in cui può diventare uno strumento per risolvere i problemi dell’Italia. Accanto a questo approccio pragmatico di adesione necessaria al progetto europeo, non mancano riferimenti alla vecchia retorica dell’Europa matrigna secondo cui: “noi non concepiamo l'Unione europea come un circolo elitario con soci di serie A e soci di serie B, o peggio come una società per azioni diretta da un consiglio di amministrazione con il solo compito di tenere i conti in ordine”. L’Europa viene accusata di “aver esteso a dismisura le materie di propria competenza”, ma di essere incapace di decidere su questioni cruciali come “in tema di approvvigionamento energetico e di materie prime” (guarda caso una materia su cui manca una vera competenza UE).
Tutto abbastanza chiaro: Meloni non aderisce alla prospettiva federale dell’Unione, ma ribadisce che siano i popoli (cioè le nazioni) a fondare l’Unione e che queste ultime debbano essere preservate nella loro identità. Allo stesso tempo, richiama con pragmatismo il bisogno di unità tra i popoli europei nella consapevolezza di avere un destino comune (anche se non lo stesso). Date queste premesse, quale istinto preverrà? Quello ideologico o quello pragmatico? Proviamo ad azzardare una previsione e un auspicio.
È possibile immaginare che Meloni desideri essenzialmente di mantenere lo status quo, quindi nessun nuovo trasferimento di sovranità a livello europeo, salvo poi accettare l’idea di una maggiore cooperazione intergovernativa su temi strategici in cui i singoli Stati non possono farcela da soli, tra cui difesa e immigrazione. L’approccio di Meloni sembrerebbe in questo senso meno pericoloso di quello fatto proprio nel 2018 dal governo “giallo-verde”, in cui molti esponenti auspicavano la dissoluzione dell’Unione europea ed un ritorno alla piena sovranità nazionale, ad esempio in ambito monetario, da perseguire anche attraverso politiche di dissesto finanziario. Con Meloni, invece, sembra quasi di tornare ai tempi del governo Berlusconi, quando il contributo dell’Italia al processo di integrazione è stato modesto e le scelte in sede europea sono state dettate da considerazioni miopi di immediato tornaconto nazionale. In realtà, un approccio volto a preservare lo status quo e a concepire i nuovi passi dell’integrazione solo in termini intergovernativi (magari con un ruolo segretariale per la Commissione) rischia di diventare più dannoso delle velleità sovraniste del 2018, dal momento che si verificherebbe in un momento di grave crisi europea e internazionale in cui l’Italia dovrebbe spingere per rafforzare la sovranità dell’Unione, non per boicottarla.
La speranza è allora che l’approccio pragmatico di Meloni prenda il sopravvento sulle sue intime convinzioni euroscettiche. A favore di una simile evoluzione giocano alcuni fattori.
Innanzitutto, non sono più gli anni 2000: l’Unione europea non vive un periodo di stabilità, ma sta affrontando molteplici crisi interne ed esterne, da quella energetica alla guerra in Ucraina, da quella climatica alla recessione in arrivo. In questo nuovo contesto, “fare niente” non è più un’opzione. Non c’è cancelleria in Europa, infatti, che neghi il bisogno di una risposta europea alle sfide in corso, mentre quasi nessuna forza politica a livello nazionale rivendica soluzioni kamikaze come l’uscita dall’Unione o l’abolizione della Commissione europea.
In secondo luogo, l’Italia è molto più debole che in passato. La sua immediata stabilità finanziaria ed economica dipende strettamente dal sostegno europeo, tramite la BCE ed il Recovery Fund. Questa dipendenza, per quanto sgradita a Meloni, è un dato strutturale da cui non è immaginabile affrancarsi, nemmeno nel lungo periodo. La stessa attività produttiva del Paese è indissolubilmente legata al mercato europeo.
Infine, negli ultimi anni è iniziato su più livelli un dibattito sul futuro dell’Europa, cioè su come l’Europa debba trasformarsi e rafforzarsi per sopravvivere nel XXI secolo. Parlare di prospettiva federale non è più una “bestemmia”, ma un’opzione legittima, e diremo noi, anche l’unica per risolvere nel lungo periodo i problemi degli Europei e delle loro nazioni (tanto care a Meloni). Certo, è sempre possibile tergiversare o boicottare riforme che vadano nella direzione della federazione europea; tutto ciò, tuttavia, ha un costo enorme, specialmente per l’Italia, dove i rischi per la tenuta sociale e quella economica-finanziaria sono immanenti e gravissimi. Un governo poco coeso, con alcuni alleati scarsamente affidabili, rischia facilmente di bruciarsi in pochissimo tempo se non è in grado di dare risposte immediate e sufficienti ai bisogni concreti dei cittadini, il che richiede, allo stato delle cose, soprattutto un aiuto europeo. Il compito difficilissimo del nuovo governo sarà allora quello non solo di invocare soluzione europee (dall’estensione del Recovery fund al tetto del prezzo del gas), ma di agire, nel solco di Draghi, per ottenerle: ciò richiede credibilità e serietà sul piano delle politiche interne (dunque stabilità di bilancio), nonché la creazione di alleanze con le istituzioni UE ed i Paesi chiave, a partire dalla Francia del tanto detestato Emmanuel Macron. Sarà questa la scelta di Giorgia Meloni? Per saperlo basterà vedere come il governo si comporterà nei prossimi appuntamenti, a partire dalla decisione in sede di Consiglio europeo di convocare la convenzione per la modifica dei trattati, come richiesto da Parlamento e Commissione.