Quello del destino inscindibile dell’Italia e dell’Europa è un concetto che abbiamo espresso tante volte e che abbiamo voluto enfatizzare anche nella nostra campagna durante le elezioni, per cercare di portarlo al centro delle preoccupazioni della politica nazionale. Per capire le molte implicazioni di questo concetto bisogna partire dai processi profondi che muovono la storia e la politica in questo momento; processi che rendono l’Italia un laboratorio cruciale.
Nel mondo oggi si confrontano in modo brutale e anche imprevisto due visioni contrapposte, che rappresentano due reazioni alternative rispetto al progresso. La linea di frattura attraversa le nostre società, investendo direttamente la questione identitaria individuale e collettiva e la stessa legittimità delle nostre istituzioni. Innanzitutto il modello democratico – che pure è l’unico realmente compatibile con un’economia sociale di mercato e con tutto ciò che ha dimostrato rendere possibile in ultima istanza il progresso – è sfidato dai regimi autocratici, che non garantiscono nulla circa il benessere delle persone e della società, ma raccolgono consenso per la loro assertività e per il loro autoritarismo reazionario che evoca fantasmi di inesistenti eldoradi passati. Questo stesso rifiuto di capire e condividere il fatto che la democrazia è l’unico vero vettore di progresso si riverbera sul rapporto con la scienza, che per molti (troppi) è diventato rifiuto del metodo che ha trasformato la storia dell’umanità, liberandola dalla schiavitù della lotta per la sussistenza e rendendola capace di decidere del proprio destino. Certo, l’utilizzo di questo potere è in molti casi drammaticamente inadeguato; ma questo non inficia il metodo, che continua a migliorare le condizioni di vita sotto ogni punto di vista di miliardi di persone; e soprattutto: quale politica è in grado di migliorare sia la gestione degli effetti indesiderati e persino pericolosi dello sviluppo della conoscenza, sia la distribuzione dei benefici che essa produce, se non una politica attenta ai valori, ai diritti, ossia una politica democratica fondata sulla condivisione del principio che tutti gli uomini sono uguali e meritano le stesse chance di vita e persino di felicità? Possono avere questa capacità le autocrazie che predicano e offrono nuove diseguaglianze, odio e negazione dei diritti? Analogamente la libertà individuale – che non è mai stata così ampiamente diffusa e garantita, anche come possibilità di ciascuno di autodeterminarsi – viene non solo negata, ma addirittura rinnegata, nel nome di tradizioni che combattono la libertà di pensiero e cercano di imporre vecchie gerarchie di genere, di razza, di religione.
Al di là delle molteplici cause che creano questa frattura (tra cui gioca sicuramente un ruolo cruciale la penalizzazione di molti settori economici e di molte aree a fronte delle delocalizzazioni manifatturiere e della transizione digitale), nello scontro in atto tra le forze che tentano di far avanzare il progresso e la reazione violenta al cambiamento, quest’ultima trova il proprio fulcro nel nazionalismo esasperato, che comporta il rifiuto di concepire la solidarietà al di fuori degli stretti confini del proprio Paese e di ragionare in termini di interessi generali, andando oltre il proprio particulare. Si tratta ovviamente di un atteggiamento miope, perché ogni volta che regimi autocratici e nazionalisti si rapportano tra loro si scontrano sul perseguimento dei loro interessi contrapposti. Viceversa, proprio perché il progresso (nel senso ampio che si diceva sopra) passa dalla capacità di governare in modo positivo l’interdipendenza e favorire la convergenza di fronte ai problemi comuni, per le forze che si richiamano alla liberaldemocrazia il primo problema da risolvere è proprio quello del superamento del nazionalismo, per poter affermare una cultura politica in grado di far emergere l’interesse condiviso, la solidarietà, la costruzione di una cooperazione perseguita per promuovere soluzioni comuni ai problemi globali.
In questo senso l’Unione europea è il laboratorio in cui si costruisce il modello e la potenziale leadership per il successo del mondo libero. In questo momento, nonostante tutto, è anche la regione in cui la democrazia manifesta la maggiore tenuta. Rispetto ad altre aree del mondo, l’Unione europea ha caratteristiche del tutto particolari, che ben conosciamo: è nata in antitesi al nazionalismo e al totalitarismo. La sua portata innovativa più profonda, anche se ancora in nuce, è l’idea che per garantire la pace e consolidare la democrazia è necessario superare la sovranità assoluta dei singoli Stati (inadeguati rispetto alla dimensione di alcune sfide cruciali da cui dipende il progresso politico, sociale e civile) e costruire una nuova sovranità sovranazionale condivisa, ossia un nuovo potere politico democratico di tipo federale, dotato delle risorse e dei poteri adeguati per fronteggiare le minacce comuni e perseguire l’interesse generale.
Anche se il processo di unificazione europea è stato dirottato dopo la caduta della CED verso un’integrazione di tipo funzionalista (che in teoria doveva costituire un passaggio preparatorio per l’unificazione politica, ma che negli anni si è concentrato molto sulla costruzione di un Mercato unico, allontanandosi dall’intento originale), il suo significato politico riemerge in modo potente nel momento in cui i rapporti e le dinamiche internazionali riecheggiano le vicende drammatiche conosciute dall’Europa nella prima metà del XX secolo. Non è un caso che l’aggressione di Putin all’Ucraina – come ci è parso subito chiaro, analogamente a molti osservatori internazionali – sia stata un attacco non solo ai valori e al modello occidentale, ma prioritariamente all’Unione europea, che diffonde, ai confini con la Russia, la sua influenza libertaria e democratica e il richiamo della sua “way of life”, sfidando culturalmente l’oscurantismo del regime putiniano.
Come federalisti conosciamo bene anche le debolezze e le divisioni che permangono nell’UE e che la rendono vulnerabile, e sappiamo anche che il modello attuale è insostenibile in un quadro geopolitico in cui sono tornate le mire egemoniche di tipo imperiale di una parte delle maggiori potenze e le catene globali del valore sono messe in discussione pesantemente (che significa che la scommessa sul mercato come perno centrale dell’Unione europea è perdente e che il focus deve spostarsi sulla capacità politica innanzitutto per garantire la sicurezza in senso lato). Il bivio di fronte a cui si trova l’UE è quindi chiaro, e – lo abbiamo sottolineato tante volte – implica la necessità (diventata ormai condizione esistenziale) di imboccare la via della creazione di un’unione politica federale.
Gli scogli da superare rimangono enormi, e sono dovuti innanzitutto all’inerzia che caratterizza l’attuale sistema europeo, che negli anni ha rafforzato molto il ruolo delle istituzioni intergovernative e ha quindi ulteriormente accresciuto il ruolo di “ostacolo” che i governi nazionali giocano (rispetto alla definizione che ne dava Spinelli come “strumento – purtroppo, aggiungiamo, ineludibile in un processo di unificazione di Stati sovrani che essi rappresentano in modo democratico – e ostacolo”). Infatti, dopo lo slancio impresso al processo dalla Conferenza sul futuro dell’Europa e la presa di posizione coraggiosa del Parlamento europeo prima dell’estate, nonostante il sostegno della Commissione europea, ribadito da Ursula von der Leyen, di fronte alla volontà del Consiglio di procrastinare la decisione sull’avvio di una Convenzione per la riforma dei Trattati richiesto dal PE, inizia a serpeggiare la tentazione di rimandare l’apertura di una Convenzione per aprire la riforma dei Trattati. Abbandonare la battaglia ora e lasciare che l’inerzia abbia ancora una volta il sopravvento, mantenendo inalterato l’attuale assetto politico-istituzionale dell’Unione, sarebbe un errore esiziale, da cui l’Unione potrebbe non riprendersi più. Come federalisti abbiamo il dovere di farci carico di questa verità. Saremmo davvero irresponsabili se pensassimo alla possibilità di battaglie costituenti nel momento in cui il Parlamento europeo si dimostrasse così codardo da abbandonare la battaglia costituente che a giugno aveva evocato per portare avanti le istanze dei cittadini manifestate con chiarezza nella Conferenza.
Allora, il nodo, per tornare alla constatazione iniziale del destino inscindibile dell’Italia e dell’Europa, diventa davvero l’azione del governo italiano. Sotto due punti di vista: sia quello contingente, perché è stata la caduta del governo Draghi che ha bloccato lo slancio del processo riformatore in Europa e cambiato l’equilibrio tra i governi nazionali – per cui è necessario che l’Italia sappia garantire continuità con il precedente esecutivo nelle battaglie per un’Europa (federale) più efficace e unita –; sia quello più strutturale della conversione europeista di un partito di destra, che viene da una cultura nazionalista antieuropea, e che, pur avendo ripudiato le proprie radici fasciste, ha la sua base originaria di consenso in questo tipo di elettorato.
Entrambi questi fronti sono cruciali per il destino dell’UE: il primo, per ovvie ragioni, il secondo perché il passaggio in Europa ad una comunità politica nuova, federale e sovranazionale, non si potrà fare senza che anche a destra si arrivi a comprendere le ragioni storiche profonde per cui è necessario fare dell’Europa il baluardo della difesa dei valori liberaldemocratici e della cultura occidentale moderna e si disinneschi e isoli la deriva populista e nazionalista.
Il compito di Giorgia Meloni, di fare del primo governo in un Paese fondatore guidato da un partito di destra antieuropea, un laboratorio virtuoso di evoluzione culturale e politica e un modello per una nuova destra europeista, è quindi al tempo stesso chiaro e difficilissimo. Come spiega l’editoriale che apre il giornale, ci sono spinte in entrambe le direzioni che influenzeranno l’esperimento. Come federalisti possiamo solo ribadire che cercheremo di dare il nostro contributo perché questo esperimento abbia successo, per il bene dell’Italia, dell’Europa e del mondo.