Von der Leyen, con un percorso molto diverso rispetto a cinque anni fa, viene rieletta. Le sue promesse devono però fare i conti con i mezzi da realizzare. Tramite una riforma federale dei trattati.

Nella vita e in politica ci sono molti modi per arrivare a uno stesso risultato finale. L’elezione di Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione europea è un esempio calzante in questo senso.

Nel 2019, la sua elezione era del tutto inattesa prima del voto europeo. Spitzenkandidaten del PPE e di S&D – cioè dei due principali gruppi partitici – erano Manfred Weber e Frans Timmermans; primo gruppo per numero di seggi, chiuse le urne, risultò essere il PPE, con 182 sui 751 totali. In una normale democrazia parlamentare, questo avrebbe comportato delle trattative per formare una coalizione di maggioranza fra i gruppi all’interno del Parlamento. Nella casa incompiuta che è l’UE, invece, i nomi di Weber in primo luogo e Timmermans in secondo furono bloccati dal Consiglio europeo. Macron voleva avere voce in capitolo nella scelta della presidenza e i Paesi di Visegrad – più uniti allora di oggi – volevano un Presidente più debole, che non li ricattasse con l’arma del denaro sulle limitazioni interne allo Stato di diritto. Finì che il nuovo nome pescato dalla CDU/CSU fu quello di Ursula Von der Leyen, con un più ampio accordo intergovernativo che includeva sia la Presidenza del Parlamento e del Consiglio ma anche quella della Banca Centrale Europea. La soddisfazione fra i 28 governi fu tale che tutti votarono a favore, fatta eccezione per la sola astensione di rito di Angela Merkel.

Tuttavia, al Parlamento europeo nel 2019 Von der Leyen faticò di più. Per ottenere la maggioranza furono necessari i voti non solo del M5S, che intraprese in quell’occasione una traiettoria più europea, ma anche del PiS polacco (con un evidente errore di calcolo politico da parte di Kaczyński e Orbán).

La storia del 2024 è stata totalmente diversa. In quanto Presidente in carica della Commissione e spitzenkandidatin del PPE (che è di nuovo risultato il gruppo con più seggi), si è presentata con significative credenziali. È stata quindi inserita nel pacchetto intergovernativo di nomine - ostacolato solo da Meloni e Orbán - uscito dal Consiglio europeo, ma la sfida maggiore si è poi presentata nel Parlamento.

Lì si è diramata una trattativa aggrovigliata. Nonostante PPE, S&D e Renew garantissero assieme 40 seggi in più dei 361 sufficienti ad avere una maggioranza, i franchi tiratori coperti dal voto segreto rendevano necessario allargare la coalizione. Due strade di fatto erano possibili. Da un lato, il coinvolgimento di ECR: tuttavia, in quel gruppo il PiS all’opposizione nel proprio Paese non avrebbe certo votato Von der Leyen, perciò l’unico bacino significativo di voti avrebbe potuto essere quello di FdI, la cui Presidente del Consiglio si era astenuta nel voto dei capi di Stato. Dall’altro lato, l’allargamento ai Verdi.

Una volta di più, si è affermata la linea di divisione di Ventotene, e non sarebbe potuto succedere altrimenti. FdI non ha preso la scelta europea, con diversi suoi europarlamentari che hanno annunciato l’astensione, ribadendo l’ignavia della propria leader. I Verdi hanno invece trovato l’accordo con Von der Leyen, che si è quindi esibita nel suo discorso del 18 luglio in un complicato esercizio di un sostegno al Green deal sufficiente a ottenere l’assenso dei Verdi ma non così deciso da perdere molti voti nel PPE. Sull’altro fronte, la beffa per ECR è stata la spaccatura, annunciata nell’intervento del suo capogruppo Procaccini: ha infatti palesato di non essere capogruppo di nulla, dicendo che ognuno in ECR avrebbe votato secondo coscienza (per la cronaca, i belgi di N-VA e i cechi di ODS hanno votato a favore).

Tale definizione degli schieramenti porta dunque con sé dei vantaggi, ma allo stesso tempo innalza ancora di più la posta. È infatti la prima volta che, all’opposizione della maggioranza che sostiene la Commissione, non c’è nessun gruppo del tutto proeuropeo. L’unica parziale eccezione è The Left, dove tuttavia assieme a parlamentari europeisti ne convivono altri più euroscettici, primi fra tutti quelli de La France Insoumise. Non esistono insomma effettive alternative proeuropee a questa maggioranza.

Segnata la linea di divisione, è ora necessario dare un senso a queste differenze. Dietro la richiesta di riformare i trattati presentata dagli europarlamentari federalisti nelle trattative, l’impegno da parte di Von der Leyen c’è stato (“abbiamo bisogno di una riforma dei trattati dove è possibile migliorare la nostra Unione”). Ora c’è da realizzare questa promessa. È vero che il passo spetta a chi non vuole cedere il proprio vuoto potere, ai governi nazionali. Ma è altrettanto vero che senza una adeguata pressione da parte del Parlamento e della Commissione nulla si muoverà.

E, senza una riforma dei trattati, le acrobazie diventano sempre più difficili. Mantenere una maggioranza su un Green deal con un impianto basato su numerose regole e pochissime risorse sarebbe tremendamente difficile. Promuovere la competitività delle aziende europee a livello globale, con buoni posti di lavoro e un adeguato livello di welfare, diventerebbe un’impresa da titani senza un rinnovato piano di investimenti europeo. Garantire la sicurezza degli europei, con il governo USA che in modo più spietato con Trump o più dialogante con Harris non vorrà più free rider, sarebbe dannatamente difficile senza una difesa europea. Su tutti questi fronti - oltre che sulla crisi abitativa, sui problemi del Mediterraneo, sull’unione dei capitali ecc - indicare dei fini senza definire i corrispondenti mezzi (mettere in piedi istituzioni, raccogliere risorse, attribuire competenze) può portare alla rovina. La sfiducia nella politica, d’altronde, si deve proprio a questo: nel fare promesse che poi non vengono mantenute.

Nel quadro attuale, non ci sono quindi strade diverse. Come sempre, la battaglia può essere vinta o può essere persa. Per combatterla, l’unità dei federalisti è fondamentale. Tanto nel MFE e nell’UEF sulla Convenzione come strumento possibile di avanzamento oggi, quanto nel Gruppo Spinelli sulla Convenzione come impegno prioritario rispetto alle divisioni sull’asse destra/sinistra. Trovando saldezza nell’obiettivo su quest’ultimo fronte, la spinta del PE può essere persino maggiore di quella impressa nella legislatura passata, con il Progetto di riforma dei trattati approvato a novembre scorso.

Se, invece, i federalisti saranno divisi, la sconfitta è dietro l’angolo. Ma la battaglia vogliamo combatterla.

 

  

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