Il governo ungherese vuole sfruttare il suo semestre di presidenza per mostrare una UE divisa. E non è solo.

La spregiudicatezza con la quale il primo ministro ungherese Viktor Orbán sta interpretando il proprio ruolo di presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea fotografa bene la debolezza strutturale dell’Unione, evidenziando senza pietà quello che non siamo e che non dobbiamo essere, ma anche quello che potremmo essere e che dobbiamo diventare.

Oggi l’UE è un coacervo di cose anche molto diverse fra loro, frutto di una storia straordinaria, che ha assicurato in questi ultimi 80 anni la pace in un continente dilaniato negli ultimi secoli da guerre sempre più sanguinose e devastanti, ma anche incompiuta e perennemente al bivio. Le sue istituzioni fondamentali sono piuttosto strabiche: due di esse - il Parlamento e la Commissione - sono orientate allo sviluppo e al benessere dell’Unione nel suo complesso, mentre altre due - il Consiglio europeo e il Consiglio dell’UE - sono condizionate dagli interessi nazionali e guardano costantemente ai propri elettori di riferimento. È vero che la Banca Centrale Europea gestisce dal 1999 una valuta unica per la quale gli stati aderenti hanno rinunciato alle proprie monete nazionali; ma a tale elemento federale non corrisponde un bilancio di pari livello, fondato su risorse proprie e gestito da un parlamento sovrano.

Non serve scandalizzarsi per queste incongruenze, che vanno analizzate e comprese nel contesto storico in cui si sono costituite; non c’è alcuna esperienza al mondo e nella storia paragonabile al faticoso processo di integrazione europea, dai suoi albori negli anni ’50 fino ai giorni nostri. Un percorso che è proseguito fra arresti e rilanci, fra errori e conquiste; ma non abbiamo a disposizione un altro mondo, più semplice e meno conflittuale, per costruire ciò di cui abbiamo bisogno, e la realtà che vogliamo trasformare è quella su cui poggiamo i piedi. L’Europa delle guerre e della violenza è il nostro problema, ma può costituire la nostra risorsa, perché - per dirla con Kant - ciò che ci limita è anche ciò che ci sostiene. A patto di non smarrire l’ispirazione di fondo della costruzione europea, la scelta antinazionalista, pacifista, federalista di Robert Schuman, di Altiero Spinelli e degli altri padri fondatori.

In questo scenario delicato, Orbán si muove come un elefante in una cristalliera. Nonostante il suo incarico semestrale non comporti alcuna rappresentanza dell’Unione, e non abbia ricevuto alcun mandato in proposito, il primo ministro ungherese si è impegnato nelle scorse settimane in una sua personale “missione di pace”, recandosi a colloquio con Putin, Trump, Xi Jinping, Zelensky, ignorando e contraddicendo la linea politica che è emersa dalle elezioni europee del 9 giugno e ha portato alla riconferma di Ursula von der Leyen. Approfittando della debolezza di questa Europa, non sufficientemente unita e democratica, Orbán sta offrendo una sponda ai rivali dell’Europa, accreditando a Mosca, Washington e Pechino l’esistenza di un’Europa debole, subalterna e divisa, disponibile a negoziare volta per volta quello che interessa nel breve periodo a questa o a quella capitale europea, senza una visione collettiva, senza l’ambizione di decidere autonomamente il proprio destino. Ecco quello che non siamo: un’Europa dotata delle istituzioni e delle regole necessarie per elaborare, decidere e praticare una politica autonoma, autorevole ed efficace. Ecco quello che non dobbiamo essere: un’alleanza impotente, incapace di assicurare il benessere e la pace ai nostri popoli, e di dare una mano al mondo per non autodistruggersi.

Purtroppo Viktor Orbán non è isolato nella sua azione demolitrice, ma si muove in sintonia con un ampio fronte antieuropeista di estrema destra, determinato a contrastare ogni progetto di ulteriore integrazione europea. Sono i Patriots for Europe, eredi di Identità e Democrazia, che nel mese scorso hanno agevolmente raggiunto e superato la soglia per costituire il gruppo parlamentare. Alla proposta di Fidesz, il partito del presidente ungherese, hanno infatti aderito gli europarlamentari del miliardario ceco Andrej Babiš, dell’FPO austriaco, i portoghesi di Chega, gli spagnoli di VOX, gli esponenti delle analoghe formazioni olandesi, danesi, lettone e greche, i leghisti di Matteo Salvini e i trenta deputati del Rassemblement National di Marine Le Pen, che con il suo delfino Jordan Bardella è sembrata sul punto di stravincere anche nelle elezioni politiche imposte dal presidente francese Emmanuel Macron dopo il voto europeo. Una intraprendenza che ha spiazzato perfino la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha visto ridurre – al di là delle aspettative e delle proprie ambizioni – il peso politico del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) da lei presieduto, e che si è ridotta a votare contro la riconferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, pur di non rinnegare la propria matrice politica, mettendo un’ipoteca sulla credibilità e sulla forza dell’Italia nelle istituzioni comunitarie nella presente legislatura.

È una destra, quella capeggiata da Orbán e Le Pen, che scommette sulla rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca a novembre, sulla complicità con la Russia autoritaria di Putin, su un mondo ipnotizzato dal contrasto planetario alle immigrazioni e a ogni ragionevole green deal, ossessionata dal mito della sovranità nazionale, dalle radici greco-romane e giudaico-cristiane sganciate da ogni coerenza civile e morale.  Un concentrato di ignoranza, di presunzione e di miopia, al quale noi siamo sicuri si possa rispondere diversamente e giustamente. Proprio la storia dell’Europa - tragicamente esemplare - sconsiglia di tornare con nostalgia al passato, all’ideologia del dominio e dell’esclusione; proprio il voto europeista espresso lo scorso giugno da milioni di cittadini europei ci incoraggia a riconfermare con forza la scelta di un’Europa che crede nella libertà e nella pace, nella democrazia internazionale e nei diritti umani: quello che possiamo essere e dobbiamo diventare.

 

  

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