Alcune riflessioni a partire dal Rapporto Draghi sulla competitività.

Il rapporto Draghi sulla competitività fornisce un giudizio lucido e spietato sullo stato dell'Unione e del processo di integrazione oggi: l'Europa non è più soltanto in crisi, bensì in un declino strutturale. Negli ultimi 30 anni abbiamo mancato la rivoluzione industriale innescata dall'ascesa di internet, abbiamo perso il controllo delle catene di approvvigionamento delle materie prime essenziali e continuiamo ad agire in ordine sparso in tutte quelle politiche - energetiche, industriali e infrastrutturali - che richiederebbero invece coesione e leadership strategica. La conseguenza di tutto ciò è un impoverimento delle nostre società e un indebolimento delle nostre istituzioni: gli europei vivono peggio oggi rispetto al passato e le prospettive per il futuro sono alquanto incerte.

Il declino europeo è segnato dalla difficoltà delle leadership nazionali di far avanzare il processo di integrazione. L'ultimo grande trasferimento di sovranità deciso attraverso una riforma istituzionale risale ormai al Trattato di Maastricht, quando gli Stati membri accettarono la creazione della moneta unica. Da allora, nonostante l'allargamento, l'adozione di normative settoriali all'avanguardia e lo sviluppo di politiche ambiziose, le autorità nazionali hanno rifiutato di trasferire a livello europeo nuove competenze sovrane. Le crisi multiple che l'Europa ha vissuto negli ultimi quindici anni - crisi del debito sovrano, emergenza migratoria, scoppio della pandemia, invasione russa dell'Ucraina, crisi energetica - hanno dimostrato la resilienza dell'Unione nel senso che - con l’eccezione del Regno Unito - gli Stati membri hanno compreso che una disgregazione parziale o totale dell'integrazione europea sarebbe letale per i loro interessi nazionali. La creazione di Next Generation EU - il primo stock di debito pubblico europeo - ha forse rappresentato il massimo sforzo che i governi nazionali, messi alle spalle dalla crisi pandemica, sono riusciti a compiere per mettere al sicuro la stabilità dell’Unione e garantire la coesione economica e sociale nei Paesi più deboli. Tuttavia, la prospettiva di rendere tale strumento di politica fiscale permanente, cosa fortemente auspicata dal rapporto Draghi, resta un tema divisivo, con un gruppo di Paesi guidati dalla Germania del Cancelliere Scholz che si ostina a negare la necessità che l'Unione si doti di una sua capacità di spesa e di finanziamento autonoma.

Il declino strutturale dell'Unione e dei suoi Stati membri è ancora più preoccupante perché si inserisce in un contesto geopolitico globale in grande trasformazione: la guerra in Ucraina, l'escalation della violenza in Medio Oriente, l'acuirsi delle tensioni intorno a Taiwan sono gli epifenomeni del nuovo scontro globale tra il blocco dei Paesi democratici liberali, difensori dell'attuale ordine internazionale, e il blocco delle autocrazie neo-imperialiste, fra cui Russia, Cina e Iran, che cercano di costruirsi delle nuove aree regionali di influenza ricorrendo senza scrupolo all'uso della forza. La crisi della leadership americana e l'oggettivo indebolimento della sua influenza in molti scenari di crisi, a partire dal Medio Oriente, lasciano gli europei esposti a molti pericoli: senza gli strumenti economici e militari per proteggere i propri interessi e i propri valori, l'Unione rischia di essere il "vaso di coccio tra i vasi di ferro" e di diventare presto o tardi una terra di conquista.

In questo contesto, la grande tentazione a cui sono esposti l'Unione e gli Stati membri è quella di una chiusura in sé stessi: ne sono prova l'ascesa delle forze nazionaliste in tutta Europa, ma anche la "svolta a destra" delle politiche dell'Unione in materia di immigrazione, ovvero del rischio di uno smantellamento del Green Deal. Intimidite dal crescere delle sfide interne ed esterne al loro benessere e alla loro sicurezza, le opinioni pubbliche nazionali cercano rassicurazione alle loro ansie nella chiusura dei confini e nel tentativo di preservare lo status quo, se non addirittura di restaurare un (immaginario) passato felice. Si tratta ahimè di una pia illusione: se non sarà l’Europa a rafforzarsi e a vincere le sfide della concorrenza globale, non basterà certo la costruzione di muri nazionali a garantire un futuro migliore per le nostre società.

È chiaro ormai che l'avanzamento del processo di integrazione non può aspettare che si formi il consenso unanime tra i governi.

Ecco allora  che Draghi indica una via di uscita da questo impasse: il processo di integrazione richiede un balzo in avanti, nel senso di dare alle istituzioni UE la capacità di autodeterminarsi e agire in un mondo sempre più competitivo e  brutale: ciò richiede, da una parte, di superare la logica dei veti nazionali, dunque estendendo il voto a maggioranza nel Consiglio e coinvolgendo il  Parlamento europeo nei processi decisionali; in secondo luogo, è necessario dotare l'Unione degli strumenti per mobilitare le risorse necessarie alla sfide poste dalla concorrenza globale: in primis rafforzare il bilancio dell'Unione rendendo permanente Next Generation EU e sviluppare il mercato europeo dei capitali per veicolare il risparmio privato verso gli investimenti.

Per qualunque osservatore consapevole percorrere la strada segnata da Draghi è una via obbligata. Il punto allora non è più tanto "cosa fare" per evitare il declino dell'Europa, bensì se farlo oppure no. I governi nazionali ancora tergiversano. Pur essendo - a parole - tutti d'accordo con Draghi, alcuni spingono per dare attuazione alle parti più "indolori" del rapporto (in materia di libera circolazione dei capitali), altri ritengono che la sua attuazione non richieda in realtà cambiamenti istituzionali rilevanti e che le risorse necessarie per gli investimenti possano essere mobilitate dai bilanci nazionali (magari modificando la disciplina degli aiuti di Stato). Lo scorso Consiglio europeo è stato eloquente: i leader degli Stati membri si sono limitati ad un vago invito all' insieme delle istituzioni UE a portare avanti i lavori per rispondere alle sfide individuate nel rapporto Draghi. È chiaro ormai che l'avanzamento del processo di integrazione non può aspettare che si formi il consenso unanime tra i governi. Davanti a questa impasse, dunque, un ruolo importante può essere svolto dalla Commissione e dal Parlamento europeo. In particolare, la presidente Von der Leyen dovrebbe fare proprie le priorità politiche del Rapporto Draghi e collegarle alla proposta di riforma dei Trattati avanzata dal Parlamento europeo lo scorso 22 novembre sulla base dei risultati della Conferenza sul futuro dell'Europa. Il sostegno del Parlamento e della nuova Commissione alla revisione dei Trattati sarebbe fondamentale per spingere il Consiglio europeo a convocare, con una maggioranza semplice, una Convenzione, aprendo così il tanto atteso cantiere delle riforme necessarie per permettere all'Unione di rispondere alle sfide della competizione globale.

 

  

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