Il mondo attendeva con ansia e sentimenti contrastanti l’elezione del nuovo Presidente USA.
È questo il destino che spetta ad una grande potenza: elezioni che in altri Paesi risulterebbero una questione di politica interna qui assumono una dimensione internazionale. Accade dagli inizi del ‘900, da quando, cioè, gli USA svolgono un ruolo di leadership dopo due disastrose guerre mondiali scatenate dagli europei. Gli elettori americani, con un controverso sistema elettorale, hanno fatto la loro scelta dando di nuovo fiducia a Donald Trump ed ora il mondo riflette sulle sue conseguenze. Una costante della politica statunitense, a prescindere che il Presidente provenisse dalle fila repubblicane o democratiche, è stata la continuità nel campo della politica estera.
Questo fattore di stabilità garantiva un equilibrio nelle scelte di politica estera degli USA, ma già con la prima elezione nel 2016 di Trump questo equilibrio si è spezzato. I drammatici eventi accaduti poi nel gennaio 2021, con Trump che non ha riconosciuto e accettato la propria sconfitta, sobillando la violenza dei propri sostenitori, hanno creato un vulnus nella democrazia statunitense. Non riconoscere una sconfitta elettorale, contestare i giudici, insultare i propri avversari politici, sobillare l’odio contro gli immigrati, minacciare il ricorso alla forza sono diventati atteggiamenti che dagli USA hanno trovato emuli in molti Paesi dove la democrazia e il rispetto tra vincitori e vinti sembrava una conquista acquisita. Purtroppo, non è più così e affermare di sostenere una politica che ha come slogan viviamo in una democrazia illiberale è entrato nel linguaggio corrente e trova simpatie anche in alcuni governi e partiti della UE che, non a caso, inneggiano al nazionalismo.
Si tratta di una crisi della democrazia che intacca la coesione sociale, fomenta l’odio per l’avversario politico e genera solo paura nelle masse e, a questo punto, la paura non fa che favorire chi incoraggia la forza e spinge all’autoritarismo come unica soluzione ai problemi. Bisognerà ora attendere i prossimi mesi, per vedere se dopo gli slogan elettorali, Trump darà effettivamente corpo alle proprie proposte.
Ha dichiarato che la più bella parola del dizionario è: tariffe. L’Europa, la Cina e il Messico si dovranno davvero attendere i dazi sulle proprie merci esportate come Trump propone e che vanno dal 20 al 200%? Avremo una guerra dei dazi? La guerra in Ucraina terminerà in 24 ore come ha dichiarato? Che ne sarà della Ucraina se effettivamente gli USA cesseranno di garantire i propri aiuti e in questo caso che faranno gli europei? Quali nuove relazioni si stabiliranno tra USA e Russia? Resteranno indifferenti gli USA all’intervento della Nord Corea in appoggio all’esercito russo? Come valuteranno questa co-belligeranza in Europa pensando a quanto accade nel Pacifico? E in Medio Oriente veramente gli USA pensano, sostenendo la guerra di Netanyahu, di portare la pace nella regione?
È dunque giunto il momento di domandarsi, in quanto europei, se ha senso continuare a sperare che le risposte ai problemi che funestano il mondo debbano venire dagli Stati Uniti, assecondandone le scelte, o se, invece, non sia giunta l’ora di essere noi protagonisti del nostro destino pur mantenendo un rapporto di alleanza.
Il recente Rapporto Draghi descrive una Europa in declino. Lo storico e sociologo Emmanuel Todd, vicino alla sinistra francese, ha di recente pubblicato un libro dal titolo inequivocabile: La sconfitta dell’Occidente. La destra sovranista sta invece riscoprendo lo scritto del 1918 di Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Ma è dunque questo il destino dell’Europa? Declino, tramonto e sconfitta: sono questi gli unici termini che descriveranno anche in futuro il Vecchio Continente? Eppure, proprio nel Rapporto Draghi vi sono le risposte che indicano i settori e gli investimenti da avviare da parte dei governi europei nei settori strategici, unitamente ad una revisione della governance che impone una riforma dei Trattati che oggi vincolano ogni iniziativa, tra veti e ricatti da parte di singoli Stati.
È la stessa risposta che la Conferenza sul futuro dell’Europa ha suggerito e che il Parlamento Europeo ha fatto propria nel voto in plenaria giusto un anno orsono. E allora? I governi europei hanno paura della voce dei cittadini e della democrazia? Certamente la democrazia ha una complessità: richiede tempi e coinvolgimento popolare che le autocrazie e le dittature possono permettersi di ignorare. Ma i cittadini europei si sono già pronunciati e i Rapporti che la Commissione ha chiesto di predisporre danno tutti la stessa risposta finale: più integrazione, meno veti, rilancio dell’economia con piani di investimento che impongono una revisione della politica di bilancio e una fiscalità europea.
È indispensabile un salto istituzionale in senso federale, per garantire non solo alla UE la possibilità di competere ed agire senza sudditanze, ma anche per dare garanzie a quei Paesi che aspirano presto di farne parte. Invocare clausole passerella o cooperazioni rafforzate, che non prevedono la loro applicazione sui temi cruciali della politica estera e di difesa, significa non aver compreso la gravità del momento. Quali artifici legali si cercheranno di ideare per far uscire l’Unione dal labirinto in cui si ritrova? Per questa UE non esistono più scorciatoie o rinvii. Pesa sui governi e sulle istituzioni europee la responsabilità politica e morale di non tradire il progetto per cui è nata l’Europa. Cosa dobbiamo attendere ancora come cittadini europei per un rilancio della integrazione europea, le prossime elezioni statunitensi? Una nuova guerra?