Il quarto appuntamento della Bussola è dedicato a un saggio di Sergio Pistone pubblicato su Il Federalista (2002, n° 3, pag. 244) sul rapporto tra Federalismo e Ragion di Stato. Vengono qui messe in luce, da un lato, le categorie di analisi elaborate dalla teoria realista che il federalismo recepisce, a partire dal primato della sicurezza esterna, l’anarchia internazionale e l’equilibrio del sistema di Stati - prima europeo e poi mondiale. Dall’altro, viene sottolineato il carattere unico del federalismo, che individua la pace come valore-guida e, nella sua realizzazione, mira a unire gli Stati in istituzioni democratiche comuni.
È possibile leggere il testo integrale su https://www.thefederalist.eu/.
Il primato dello Stato rispetto alla società
L’assunto basilare del paradigma della ragion di Stato coincide con la tesi secondo cui lo Stato è lo strumento insostituibile per rendere possibile la convivenza pacifica fra gli uomini nell’ambito delle società complesse, vale a dire delle società fondate sulla divisione del lavoro e l’economia mercantile (che ha aperto la strada alla rivoluzione industriale), formatesi in Europa a partire dalla fine del Medioevo. […]
La costruzione del monopolio della forza nelle mani dell’autorità centrale dello Stato (normalmente una casa regnante) ha richiesto lotte durissime e secolari […]. In questa fase lo Stato moderno ha realizzato, attraverso un lungo processo che in parte è ancora in corso, una grande opera di incivilimento della popolazione ad esso sottoposta […]. In questo quadro sono state possibili le grandi trasformazioni dello Stato promosse dalle ideologie emancipatrici che hanno il loro fondamento nell’Illuminismo, e cioè il liberalismo, la democrazia e il socialismo. […]
L’anarchia internazionale
[…] Il secondo insegnamento fondamentale del paradigma della ragion di Stato […] individua nella dicotomia sovranità statale - anarchia internazionale il fondamento della differenza strutturale fra le relazioni interne allo Stato e le relazioni internazionali.
[…] Mentre all’interno dello Stato l’autorità centrale disarma i singoli e i gruppi in cui è articolata la società e li costringe a regolare i loro rapporti e i conflitti che vi sono connessi ricorrendo al diritto invece che alla violenza, nei rapporti esterni tutti gli Stati non solo mantengono gli armamenti l’un contro l’altro, ma li rafforzano e perfezionano senza sosta e ricorrono all’uso e alla minaccia della forza. […]
In questa situazione ogni Stato è costretto ad attuare una «politica di potenza», la quale non significa in senso rigoroso una politica estera particolarmente violenta e aggressiva, bensì una politica che tiene conto della possibilità permanente delle prove di forza (sia dell’uso che della semplice minaccia della forza), e che di conseguenza appresta e usa nei casi estremi i mezzi di potenza indispensabili (armamenti, alleanze, occupazioni di vuoti di potere prima che altri lo facciano), o ricorre all’astuzia e alla frode. […] Il primato della sicurezza è il fattore decisivo che spiega la diversa evoluzione nell’ambito del sistema europeo degli Stati — che ha caratterizzato storicamente gli Stati di tipo insulare (esempio paradigmatico: la Gran Bretagna) e quelli di tipo continentale (esempio paradigmatico: la Prussia-Germania). […]
Un numero molto limitato di Stati sovrani rispetto al loro complesso […] esercitano in sostanza il governo del mondo, cioè fissano le regole formali e informali entro cui si svolgono le relazioni internazionali. È peraltro chiaro che non si tratta di un governo legittimo fondato sul monopolio della forza, né tantomeno democratico, e che è quindi qualitativamente diverso dal governo nell’ambito di uno Stato sovrano. […]
Individuando nell’equilibrio il fondamentale elemento strutturale che presiede ai rapporti fra le grandi potenze, si intende mettere anzitutto in luce una situazione di fatto e cioè che fra le grandi potenze dominanti nel sistema europeo e in quello mondiale […] si è realizzata in modo duraturo una condizione di non eccessiva differenza sul piano della forza. […]
L’equilibrio fra le grandi potenze costituisce storicamente la condizione fattuale che ha indotto gli Stati a riconoscersi reciprocamente anche in modo formale come Stati sovrani e che, nel caso dell’Europa moderna, ha reso di fatto possibile l’affermarsi e il progressivo estendersi del diritto internazionale, garantendone una certa efficacia, nonostante che esso non promani da un potere sovrano. In effetti, secondo il paradigma della ragion di Stato le norme del diritto internazionale che vengono effettivamente osservate dagli Stati derivano la loro validità fattuale non tanto dal principio pacta sunt servanda, che costituisce essenzialmente un giudizio di valore, quanto piuttosto dal fatto che, dato l’equilibrio, cioè l’impossibilità fattuale di eliminare la sovranità degli altri Stati, gli attori fondamentali del sistema internazionale hanno dovuto riconoscere la necessità di convivere in qualche modo. Pur non rinunciando alla politica di potenza e alla guerra come extrema ratio, hanno dovuto acconciarsi a regolare in qualche modo la loro convivenza di carattere anarchico, dando vita ad un diritto sui generis, in quanto legittima l’uso normale della violenza ed è subordinato ai rapporti di forza e gerarchici fra gli Stati. […]
La pace perpetua e lo Stato federale mondiale
[…] Il valore-guida dei teorici della ragion di Stato è la sicurezza e, quindi, la potenza del proprio Stato. […] Per contro, il valore-guida dei federalisti è la pace e, quindi, la convinzione che nella fase storica dell’avanzata rivoluzione industriale l’impegno a favore del progresso dell’umanità sia indissociabile dall’impegno concreto a favore del superamento della violenza nelle relazioni internazionali. Alla base di questo orientamento ci sono le illuminanti riflessioni sulla pace contenute negli scritti politico-giuridici e di filosofia della storia di Kant. […]
La critica federalista dell’internazionalismo
[…] La componente internazionalistica di queste ideologie [ndr: liberalismo, democrazia, socialismo] si articola in due aspetti fondamentali.
Il primo è l’orientamento cosmopolitico. Esso esprime l’idea che è impossibile pensare i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale come principi validi per un solo paese e limitati al solo spazio nazionale. […]
Il nocciolo comune dell’approccio internazionalistico significa il ritenere che un mondo di Stati liberali e, rispettivamente, democratici, socialisti e comunisti sarebbe guidato da idee liberali e, rispettivamente, democratiche, socialiste e comuniste e implicherebbe quindi l’eliminazione dei fenomeni connessi con la politica di potenza, dipendenti dalla realizzazione ancora incompleta o non universale dei principi di organizzazione interna dello Stato affermati da tali ideologie.
Il contrasto fra questo approccio, che riduce in sostanza la politica estera a funzione della politica interna, e l’approccio federalista non potrebbe essere più netto. […] I federalisti sanno che esiste un nesso inscindibile fra politica di potenza e struttura anarchica della società degli Stati. Perciò riconoscono una sostanziale autonomia della politica estera rispetto alla politica interna, e percepiscono altresì come la priorità della sicurezza esterna rappresenti un ostacolo fondamentale alla piena realizzazione della democrazia. […]
Se la democrazia è dunque la premessa dell’instaurazione della pace, rimane il fatto che essa non porta automaticamente al raggiungimento di questo obiettivo, dal momento che di per sé non implica il superamento dell’anarchia internazionale. […]
Il non riconoscere che non basta la democrazia per ottenere la pace, la quale richiede, per essere perpetua, solidi legami federali, indica che l’internazionalismo democratico resta in definitiva prigioniero dell’ideologia nazionale, che induce a ritenere insuperabile la pluralità degli Stati sovrani.
Il superamento pratico dell’internazionalismo
[…] La resistenza strutturale dei governi nazionali di fronte a questa prospettiva [ndr: quella di una Federazione europea] ha il suo fondamento nella legge dall’autoconservazione del potere. Come chiarisce la teoria della ragion di Stato, già a partire da Machiavelli, i possessori e del potere statale tendono inesorabilmente a conservarlo e a rafforzarlo. […] La legge dell’autoconservazione del potere vale anche per gli Stati democratici. […]
Il paradosso per cui dove si decide non c’è un sistema pienamente democratico e dove questo esiste, a livello nazionale, non si prendono più decisioni di importanza strategica è destinato a produrre un disagio crescente nei partiti e nell’opinione pubblica di orientamento democratico. Questo disagio può sboccare in una crisi fatale della democrazia, ma può altresì essere indirizzato verso l’idea della democrazia sovranazionale. […]