Mentre fuori dall’UE ci si batte per avvicinarsi all’Europa, dentro l’UE l’immobilismo predomina. Ma non può durare a lungo.
Le più grandi manifestazioni in sostegno a una certa idea, a una certa proposta, in genere avvengono dove quella idea, quella proposta ha sede. Nel caso dell’UE è diverso. Tutte – o quasi – le manifestazioni più partecipate a favore del processo di integrazione europea sono avvenute in città, in Stati che dell’UE non fanno parte, o dall’UE stavano uscendo. Kyiv, con più di mezzo milione di persone il primo dicembre 2013, prologo di Euromaidan. Londra, con mezzo milione circa il 23 marzo 2019 contro Brexit. Nelle ultime settimane, Tbilisi, a seguito delle contestate elezioni parlamentari del 26 ottobre scorso e della successiva decisione del Primo ministro di rimandare al 2028 l’inizio dei colloqui per l’adesione all’UE (dopo le precedenti proteste contro la Legge russa). A fare eccezione, sono in particolare le manifestazioni federaliste dentro le Comunità o l’UE: fra le altre, Milano il 29 giugno 1985, Roma il 25 marzo 2017.
Fuori dall’ambiente federalista, chi ha più a cuore l’UE è chi tocca con mano cosa vuol dire farne a meno. I soldati e i civili ucraini che muoiono sotto le bombe di Putin. I georgiani che si sentono risucchiati dall’imperialismo russo. I britannici che si vedono isolati in un mondo globalizzato.
Come europei, questa constatazione dovrebbe farci riflettere e scatenare un sussulto che rilanci il processo di integrazione. Le crisi che rendono evidente la necessità di ulteriori passi sono di per sé numerose: la stagnazione dell’economia europea ben documentata dal Rapporto Draghi, la sicurezza non più garantita da Trump a ovest e minacciata da Putin a est, conti dei bilanci nazionali che non tornano. Tuttavia, nessuna di queste crisi sta premendo così forte sull’UE da azzannarla. Si aggiunga che Brexit ha palesato i rischi dell’uscita dall’UE e che i governi dei due principali Paesi sono al momento indeboliti o dimissionari per litigiosità intestine. In tali condizioni, l’immobilismo diventa la bussola politica.
Tuttavia, il mondo attorno all’UE continua a muoversi. Come all’inizio del processo di integrazione europea, quando la rinascita degli Stati nazionali dovette fare i conti con la minaccia incombente dell’URSS di Stalin, oltre che con l’enigma della ricostituzione dell’esercito tedesco. O all’inizio degli anni 90, quando la caduta dell’URSS e la parallela riunificazione della Germania posero le basi per il trattato di Maastricht e la moneta unica. O, poco dopo, ai primi anni del terzo millennio, quando l’allargamento a est portò a un tentativo di riformare le istituzioni UE di allora. Si tratta in fondo di riconoscere il prevalere della dimensione esterna sulla dimensione interna degli Stati – fattore sempre più marcato nel mondo globalizzato di oggi. Dove l’UE è sempre più piccola.
Ecco quindi che la dimensione esterna porterà i nodi al pettine. Il 20 gennaio Trump sarà inaugurato Presidente degli USA: da quel giorno, i nuovi dazi da lui evocati potranno essere effettivamente applicati; le richieste di aumentare la spesa nella difesa a pena di non garantire la sicurezza in caso di attacchi esterni si faranno più reali; aumenterà la pressione sull’Europa perché si faccia carico di garantire la sicurezza dell’Ucraina, una volta concordata una tregua nella guerra con la Russia. Inoltre, a breve NextGenerationEU terminerà, perciò – con un’economia UE che cresce la metà di quella USA – bisogna decidere se rilanciare il piano di investimenti, con una formula auspicabilmente rinnovata, o se ripagare dal 2028 il debito contratto, con aggravio sul già inconsistente Quadro finanziario pluriennale.
Ogni crisi richiede poi un leader in grado di prendere in mano la situazione. Dopo Schuman e la sua dichiarazione del 9 maggio 1950, De Gasperi e il tentativo della CED, Kohl e l’abbandono del marco in favore dell’euro, oggi la carenza di leadership europee è evidente. Fra i governi, non c’è più nemmeno una Merkel a condurre l’UE in un’ottica intergovernativa. Viene da chiedersi se l’ex cancelliera tedesca, avendo ipoteticamente a disposizione un governo tedesco stabile nel contesto europeo attuale, intenderebbe uscire dall’impasse imponendo agli altri capi di governo di mettere al voto la convocazione della Convenzione nel Consiglio europeo.
La realtà è che ogni governo nazionale si copre dietro il paravento del consenso. La celebre confessione di Juncker rimane vera: “Sappiamo tutti cosa fare, ma non sappiamo come essere rieletti dopo averlo fatto”. Si noti che il consenso in questione non è il consenso dei cittadini europei in un’elezione europea, dove formulare soluzioni europee è la proposta politica più logica. È invece il consenso di cittadini nazionali in elezioni nazionali, dove chi formula soluzioni europee agisce in un campo strutturalmente ostile: quello nazionale, che produce la conseguente risposta dei nazionalismi. È quindi, in realtà, più un rebus di logica che un problema di consenso quello che i leader pro-europei devono risolvere. A trovare la chiave di volta sarà chi farà prevalere i propri ideali universali di fondo al carattere nazionale. Potrà essere una forza progressista sul piano delle proposte politiche, ma potrà anche essere una forza conservatrice.
“Eventuali successi di ucraini, georgiani e moldavi saranno solo parziali finché un solido Stato federale non sarà creato.”
Chiunque sia, tanto agli ucraini quanto ai georgiani e ai moldavi che – nelle trincee e nelle piazze – si battono per avvinarsi all’Europa, dovrà rendere conto. Così come dobbiamo farlo noi federalisti. Eventuali successi di ucraini, georgiani e moldavi saranno solo parziali finché un solido Stato federale non sarà creato. Le minacce di Putin e altri dittatori troveranno spazio finché ci saranno Stati europei isolati. Serve dunque che MFE e UEF ricoprano un ruolo di iniziativa che possa tracciare la rotta dello Stato federale, sia nei confronti dei leader che prenderanno le decisioni sia nei confronti dei cittadini che saranno chiamati a esprimersi su quelle decisioni. Il Parlamento europeo, l’organo che rappresenta i cittadini europei, potrà essere un attore centrale nel chiedere una riforma dell’UE in senso federale.
Non abbiamo la certezza che lo Stato federale sarà fatto. Ma a darci forza ricordiamo una frase attribuita da Tito Livio a Lucio Emilio Paolo: “Le decisioni sono le situazioni ad imporle alle persone, piuttosto che le persone alle situazioni”. Col nostro impegno, le decisioni potranno essere quelle giuste.