Come si legge nella Memorie di Jean Monnet, all’inizio degli anni ‘50, a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, vi era un sentimento diffuso che una nuova guerra in Europa sarebbe stata inevitabile, e gli interessi divergenti degli Stati europei rendevano questo rischio reale. Appena superata la devastazione del conflitto bellico, e nonostante la lezione che avrebbero dovuto trarne, gli europei, prigionieri dei vecchi schemi, si apprestavano a tornare alla contrapposizione tra Stati nazionali. Occorreva dunque trovare una soluzione che invertisse la logica, fino allora imperante, di una negoziazione condotta da ogni Stato con l’obiettivo di trarne dei vantaggi per sé, e che facesse emergere un interesse comune.
È con questo spirito che Jean Monnet, consapevole della drammaticità del momento e al tempo stesso della portata politica che un cambio di prospettiva di questo tipo avrebbe comportato, concepisce il progetto di Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio che poi sarà fatto proprio da Schuman. Il progetto era chiaro: il carbone e l’acciaio erano al tempo stesso la base della potenza economica e di quella bellica, e assumevano dunque un forte valore simbolico; inoltre, la loro produzione era concentrata principalmente in Francia e in Germania, fattore questo che rendeva la loro gestione comune l’immagine stessa del riavvicinamento tra due Stati che si erano combattuti. Si trattava di un settore cruciale, ma ben definito, e il progetto di gestire tali risorse in comune aveva, come si leggeva nelle stesse Conclusioni del progetto iniziale, una portata politica: aprire nelle sovranità nazionali una breccia sufficientemente limitata perché potesse essere accettata dagli Stati, ma sufficientemente profonda da portare gli Stati all’unità necessaria per garantire la pace.
Una cosa colpisce più di altre nelle memorie di Monnet relative a quel periodo: la consapevolezza della portata rivoluzionaria del progetto – un vero salto nel buio – e la tenacia nel difenderne tale natura contro i numerosi tentativi, durante le negoziazioni, di svuotarlo del suo elemento essenziale: l’indipendenza della C.E.C.A., e in particolare dell’Alta Autorità, dagli Stati membri.
Si trattava di un’indipendenza fondata su una caratteristica unica nel panorama delle organizzazioni internazionali: l’autonomia finanziaria della CECA, fondata sulla capacità dell’Alta Autorità (l’organo oggi corrispondente alla Commissione europea) di procurarsi i fondi necessari per l’espletamento dei suoi compiti stabilendo prelievi sulla produzione di carbone e di acciaio e contraendo prestiti (questi ultimi utilizzabili solo per concedere prestiti alle imprese).
A differenza di quanto accade oggi nell’Unione europea, i prelievi non passavano per i bilanci degli Stati membri, bensì erano versati direttamente dalle imprese su conti aperti a nome dell’Alta Autorità. La CECA dunque era dotata di una Tesoreria centralizzata, e disponeva degli strumenti necessari per ottenere il versamento dei prelievi nel caso di mancato pagamento. Poteva infatti applicare maggiorazioni fino al 5% per il ritardo nel pagamento e le sue decisioni che comportavano obblighi pecuniari costituivano titolo esecutivo (previa una mera verifica di autenticità da parte delle autorità degli Stati membri).
Pur avendo tale potere fiscale il limite di non poter superare la percentuale dell’1%, le modalità di applicazione dei prelievi e di riscossione degli stessi erano decisi dall’Alta autorità, e il limite dell’1% poteva essere superato dietro autorizzazione del Consiglio che decideva a maggioranza del 2/3 (e dunque non all’unanimità)[1]. Con il limite di non comportare un coinvolgimento dell’Assemblea (che nella CECA non rivestiva un ruolo rilevante, dal momento che l’istituzione sulla quale ruotava tutto il suo funzionamento era l’Alta Autorità), il Trattato CECA dava vita dunque a vere e proprie imposte europee, relative unicamente a un settore ben delimitato, quello della produzione del carbone e dell’acciaio, ma che consentivano all’Organizzazione di finanziarsi indipendentemente dagli Stati.
Il parallelismo con la situazione che stanno vivendo oggi l’Europa e il processo di integrazione è molto evidente. La crisi sanitaria di quest’ultimo mese, innestatasi su meccanismi di funzionamento dell’Unione che avevano già palesato ampiamente i propri limiti (basti pensare al fallimento dei tentativi di approvare il Quadro Finanziario Pluriennale), ha mostrato con evidenza la tentazione di far prevalere la logica degli egoismi nazionali. È evidente dalle reazioni iniziali che se la crisi avesse colpito solo alcuni tra i Paesi europei – se dunque non si fosse dimostrata rapidamente un drammatico shock simmetrico – sarebbe perdurata l’impossibilità di concepire forme di solidarietà tra Stati sovrani, che per definizione perseguono ciascuno il proprio interesse (oltretutto sempre più centrato sul presente in questa fase di crisi generalizzata della politica democratica). Se l’aggravarsi della crisi sta dunque convincendo anche i Paesi “frugali” a concertare misure di aiuto degli Stati in difficoltà e di sostegno alle economie più deboli, non va dimenticato che tali meccanismi rimangono nella logica della cooperazione tra Stati sovrani, dove gli Stati più “virtuosi” e con maggiore solidità finanziaria dovranno fornire un sostegno straordinario e garantire per i Paesi più fragili in quanto soggetti alle limitazioni della sostenibilità del loro stesso debito sovrano. Così come, dunque, finita la seconda guerra mondiale, le divergenze tra gli Stati europei facevano presagire lo scoppio di una nuova guerra, allo stesso modo, quando la crisi sanitaria sarà superata, si ripresenteranno, e con ancora più forza, le stesse contrapposizioni tra Stati che hanno caratterizzato gli ultimi anni.
L’esperienza della CECA ci insegna che la soluzione della crisi, che al di là dell’emergenza sanitaria ed economica è prima di tutto una crisi politica, non può essere trovata in strumenti che rispondono alle logiche seguite finora, e che occorre un progetto dalla forte valenza politica che sia in grado di capovolgere il rapporto tra Stati membri e Unione rendendo quest’ultima autonoma e capace di agire nella sua sfera di competenza. Un progetto che, se pur inizialmente limitato a certi settori o a certe risorse, sia in grado di aprire una breccia nella sovranità nazionale che porti al prevalere dell’interesse comune sugli interessi dei singoli Stati.
Questa soluzione, come ci insegna la CECA, consiste nell’attribuzione di un potere fiscale all’Unione. Sul modello della CECA, l’esercizio di questa competenza, limitata inizialmente a poche risorse, dovrebbe essere affidato alle istituzioni politiche dell’Unione. In particolare, mentre al Parlamento e al Consiglio, che deciderebbe a maggioranza qualificata, sarebbe affidato il compito di stabilire la tipologia di imposte e di fissare un tetto massimo delle stesse, alla Commissione spetterebbe il compito di definire le modalità di applicazione e di riscossione delle risorse, che sarebbero versate direttamente al bilancio dell’Unione, senza passare dagli Stati membri.
Le risorse potrebbero essere legate a “beni pubblici europei”, come l’ambiente, e quindi consistere inizialmente in imposte quali la border carbon tax, nella prospettiva dell’attribuzione di nuove risorse in futuro.
È una soluzione che non può fondarsi sui trattati esistenti, che non attribuiscono capacità fiscale all’Unione, e che, essendo la competenza fiscale una competenza tuttora nelle mani degli Stati membri, implicherebbe una modifica degli stessi volta al trasferimento di questa competenza al livello sovranazionale.
È inutile nascondersi che si tratta di un passaggio difficile, perché comporterebbe un passo decisivo verso il trasferimento della sovranità al livello europeo, ma l’opportunità che offre questa crisi è quella di colpire in modo drammatico tutti gli Stati dell’Unione europea, costringendo ad aperture prima impensabili. Come scriveva Jean Monnet, “les problèmes concrets, je le sais par expérience, ne sont jamais insolubles à partir du moment où ils sont abordés du point de vue d’une grande idée”.
[1] Secondo l’art. 95, par. 3, del Trattato CECA, in circostanze eccezionali consistenti in impreviste difficoltà nelle modalità di applicazione del Trattato o in un cambiamento profondo delle condizioni economiche o tecniche che interessi direttamente il mercato comune del carbone e dell’acciaio, l’Alta Autorità e il Consiglio potevano adattare alle circostanze le regole relative all’esercizio da parte dell’Alta Autorità dei propri poteri. Secondo la dottrina (Potteau), in queste circostanze era pensabile che l’Alta Autorità potesse procurarsi mezzi di finanziamento supplementari rispetto a quelli previsti dal Trattato, ricorrendo ad esempio al prestito, strumento normalmente consentito solo per concedere prestiti alle imprese e non ai fini del finanziamento dell’organizzazione.