La Conferenza sul Futuro dell’Europa, lanciata con grande enfasi e convinzione da Ursula von der Leyen all’inizio della sua presidenza, è un po’ scomparsa dal radar delle notizie dell’Unione. Cosa abbastanza logica di fronte al periodo assolutamente eccezionale e inaspettato vissuto dall’Ue nell’affrontare la crisi della pandemia. Ma soprattutto per l’urgente necessità di trovare dei rimedi comuni che aiutassero i 27 a trovare una via d’uscita unitaria attraverso nuovi fondi, strumenti e politiche. Di qui tutta l’attenzione rivolta in questi mesi al varo del cosiddetto Recovery Fund.
Ma che la Conferenza non fosse del tutto scomparsa nei pensieri della Commissione e dei suoi principali supporter, Macron e Merkel, lo si indovina dalla denominazione ufficiale del fondo: Next Generation EU. In esso si ritrovano infatti indicazioni e prospettive già accennate nella bozza di proposta della Cfe, dalle politiche per la digitalizzazione all’ambiente, dall’intelligenza artificiale alle infrastrutture. Se questa nostra interpretazione è valida, allora esiste qualche speranza che la Conferenza possa essere ripresa per i capelli e magari rendersi utile per rafforzare il programma del Recovery Fund. In altre parole, è dalla fusione fra Recovery e Cfe che potrebbero nascere risultati positivi per l’Ue sia sul piano delle politiche che delle istituzioni.
A ben leggere la decisione del Consiglio europeo di metà luglio sul Recovery Fund si possono infatti già intravedere novità di grande rilievo sotto il profilo politico-istituzionale: la possibilità per la Commissione di emettere titoli di debito sul mercato internazionale, la prospettiva di risorse proprie e di tassazione comune volte a ripagare lo stesso debito, politiche comuni anche nel campo sanitario oltre che nei settori sopra ricordati.
Tutte queste iniziative, se messe in pratica, implicano anche la necessità di sistemi di governance più avanzati di quelli attualmente esistenti. Non per nulla uno dei maggiori scontri all’interno del Consiglio europeo si è consumato sul tema del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri da adottare in sede di approvazione dei programmi nazionali finanziati dal fondo comune. Il fatto che per accontentare i Paesi sovranisti, contrari al voto a maggioranza, si sia introdotto il cosiddetto “freno di emergenza” per sospendere i pagamenti e rivedere i piani nazionali la dice lunga sulle difficoltà delle istituzioni comunitarie di rispondere rapidamente e con efficacia alle sfide che le attendono. Anche se il “freno” o veto sospensivo, che consiste nel rinvio al Consiglio europeo dell’esame dello stato di implementazione dei programmi, non sia una novità sul piano istituzionale, non vi è dubbio che ciò cozza con l’ambizione e la necessità di governo del fondo da parte della Commissione e del Parlamento europeo, secondo le regole comunitarie classiche.
Ma di fronte alla crescita esponenziale, dal trattato di Lisbona ad oggi, del ruolo centrale e inappellabile del Consiglio europeo è abbastanza evidente che una Unione a 27 non può rispondere efficacemente alle grandi sfide che la attendono in tutti i campi e non solo in quelli del Recovery Fund.
Ecco quindi che la Conferenza sul Futuro dell’Europa trova la sua piena giustificazione: affrontare ancora una volta, come lo si è fatto per ben sei volte nel passato, il tema dell’aggiornamento dei meccanismi istituzionali da cui dipendono le decisioni dell’Unione.
Ma proprio sulla questione di una revisione, per quanto parziale del Trattato di Lisbona, sono cominciate le prime difficoltà per la Cfe. Infatti, ancora prima che la Conferenza inizi ufficialmente (probabilmente nel tardo autunno) gli ambasciatori dei 27 riuniti nel Coreper 2 hanno dichiarato che non saranno necessarie modifiche dei Trattati, dato che le attuali regole lasciano sufficiente spazio per migliorare la capacità decisionale dell’Ue. Quali siano questi spazi nessuno davvero lo sa. Finché un solo Paese potrà utilizzare la carta del veto sospensivo o di emergenza sarà ben difficile per l’Ue progredire. Si pensi ad esempio alla politica estera, tanto declamata nei programmi della von der Leyen, ove anche le decisioni comuni adottate a maggioranza qualificata possono essere bloccate da un singolo Paese e rinviate al Consiglio europeo, che entro 3 mesi dovrà decidere all’unanimità se andare avanti o meno.
Insomma, mettere mano alle regole è più che mai necessario, anche per non fare perdere credibilità alla stessa Conferenza. Essa potrà invece trovare ulteriori terreni di sostegno proprio dalle esperienze che nel frattempo verranno avviate con il Next Generation EU, non dando troppo peso alle posizioni del Coreper 2 ove, come spesso succede in questi organismi, si tende ad evitare gli ostacoli, aggirandoli.
Oggi, se davvero si vuole guardare al futuro dell’Ue, va colta l’opportunità sia della Cfe che del Recovery Fund. Ma per non essere ingabbiata nella logica del Coreper e dei governi sovranisti, la Cfe dovrà anche condurre una grande campagna pubblica e coinvolgere nei propri futuri organi gestionali i diversi livelli di governo dell’Unione, dalle istituzioni comuni fino agli enti locali e ai rappresentanti della società civile. Una grande mobilitazione per le future generazioni.