Il fenomeno pandemico in corso ormai da circa un anno ha dimostrato, quasi con la brutalità che ci saremmo aspettati da una invasione extraterrestre, che il mondo è un villaggio (che andrebbe governato) e che l’umanità intera è una comunità di destino.
La diffusione planetaria del virus ha anche dimostrato, sul piano sanitario, come sia necessario mettere insieme le risorse di tutti per battere questo nemico invisibile.
In questo senso l’assenza iniziale di informazioni dalla Cina (nessuna autopsia effettuata) ha ritardato notevolmente la comprensione del meccanismo con il quale il virus diventa potenzialmente letale per una percentuale non irrilevante di cittadini (è deceduta, nei paesi occidentali, circa una persona su mille abitanti) orientando le prime cure verso una direzione non molto adeguata (solo dopo le autopsie effettuate in Italia si è visto essere il meccanismo della CID – coagulazione intravasale disseminata – l’elemento decisivo per la letalità del virus consentendo di introdurre, già dalle prime fasi di malattia in via preventiva, idonee terapie).
Resta vero che il livello di sensibilità individuale all'attacco del virus è per il momento difficilmente prevedibile con certezza. C'è chi non viene contagiato, chi non sviluppa alcun sintomo, chi se la cava con sintomi lievi, chi fa “una brutta influenza”, chi ha bisogno di ricovero con ventilazione assistita, chi finisce in terapia intensiva e chi muore. In effetti succede quello che avviene per l'influenza, sia pure con numeri e percentuali diverse. È chiaro tuttavia che la condivisione delle informazioni e la collaborazione nella ricerca di soluzioni (come per il vaccino), da sempre considerata essenziale nel mondo scientifico per la soluzione dei problemi generali dell’umanità, conferma la sua indicazione anche in questo caso.
Purtroppo, essendo il mondo ancora diviso in stati nazionali, la possibile gestione della pandemia sul pianeta, si è trasformata in un tentativo di gestione di tante “epidemie nazionali”, con politiche anche piuttosto divaricate di conciliazione della necessità di tutelare la salute delle persone con quella di non far saltare il sistema economico nazionale; il tutto dovendo tener conto della possibilità di tenuta del proprio sistema sanitario.
Una volta che le informazioni scientifiche sul virus si sono finalmente diffuse e che le conoscenze relative agli approcci terapeutici si sono consolidate l'andamento della pandemia è dipeso, nei singoli Paesi, solo dai diversi modi con i quali si è realizzato il punto di equilibrio tra tutela della salute, sostenibilità economica e tenuta del sistema sanitario. È interessante considerare come sembra essere stata quest'ultima variabile a determinare in via prioritaria i livelli di lockdown, seguita dalla tutela della salute (in termini però di mantenimento del consenso per la politica) e solo dopo dalla sostenibilità economica.
Ma il ragionamento può essere anche rovesciato: si è intervenuti (danneggiando inevitabilmente l'economia) solo quando c'è stata la prospettiva della crisi di consenso determinata non tanto dalla letalità del virus lasciato libero di correre, quanto piuttosto dal rischio (anzi dal dato di realtà) di non poter più garantire l'accesso alle cure nel momento in cui il sistema sanitario è andato in saturazione. Tutto questo in attesa che la ricerca ci consegni un vaccino sufficientemente efficace.
Il titolo di queste riflessioni riguarda però la capacità dell'emergenza determinata dalla pandemia di favorire decisioni che vanno verso la costruzione della Federazione Europea.
Il potenziale potere federatore del virus Covid-19 si è espresso nell'area del mondo dove il processo di integrazione tra gli stati nazionali (e in qualche modo di superamento della sovranità esclusiva degli stessi) è più avanzato, ossia nell'ambito dell'Unione Europea. Qui l'impatto devastante della pandemia sul piano della salute e dell'economia ha prodotto uno scatto in avanti da parte delle istituzioni europee rispetto ad una impasse presente ormai da anni fino alla decisione, favorita dagli Stati membri, di far nascere un debito pubblico europeo. Questa operazione favorisce la riapertura del dibattito sulla revisione dei trattati e quindi una nuova spinta verso la costruzione dello stato federale in Europa.
Rispetto invece alle dinamiche mondiali le cose stanno in modo un po' diverso.
Non torno qui sulle tante polemiche dei primi mesi della pandemia. Vorrei soffermarmi invece sul senso delle proposte, avanzate da più parti, relative alla necessità di costituzione di un'autorità sanitaria mondiale vera in grado di governare eventi come questo a livello planetario (una sorta di cessione di sovranità in ambito sanitario da parte degli stati nazionali ad una struttura mondiale in grado di imporre agli Stati le corrette politiche per la tutela della salute durante eventi critici come la pandemia).
Queste proposte confermano come la gestione delle emergenze sanitarie (evento estremo del più generale problema della tutela della salute delle persone) si aggiunga ad altre questioni che hanno già acquisito lo status di problemi la cui natura imporrebbe che fossero affrontati a livello mondiale, come, ad esempio, la salvaguardia dell'ambiente e degli equilibri ecologici, l'energia, ecc.
Forse però la pandemia si presta meglio a dimostrare come il tentativo di trovare soluzioni di “collaborazione globale” senza costruire un potere mondiale democratico sia destinata al fallimento. Infatti per fronteggiare la pandemia, in assenza di misure terapeutiche idonee, l'unica strada è stata quella di ridurre i contatti tra le persone limitando la loro libertà di movimento, ossia mettendo in atto un forte potere di coercizione. Questo potere è attualmente circoscritto agli Stati e non è pensabile che possa essere trasferito ad una autorità mondiale in assenza di un passaggio di sovranità.
In conclusione lo shock determinato dal virus alieno ha consentito nel territorio dell'Unione Europea una possibilità di concreta ripartenza del processo di costruzione della Federazione Europea più di quanto altre significative crisi degli ultimi decenni non abbiano fatto. L'ipotesi che mi pare più ragionevole è che questo sia avvenuto perché ci si è rapidamente resi conto (dopo un momento di iniziale resistenza ad accettarlo) che il Covid-19 produceva una crisi simmetrica in Europa (e nel mondo).
A livello mondiale ha comunque fatto comprendere che il tema della salute (peraltro considerato universalmente prioritario in tutte le valutazioni che vedono il coinvolgimento dei cittadini per la definizione del benessere percepito) è una delle questioni che vanno affrontate in termini planetari e ha permesso di fare passi avanti verso la consapevolezza che il genere umano è una comunità di destino e che il mondo è un villaggio che deve essere governato. Questi elementi vanno considerati positivamente in quanto propedeutici alla battaglia per unire il mondo. Infatti, da un lato ci si rende conto che la portata delle reciproche interdipendenze, determinata dal mercato globale, dalla mobilità delle persone, dall'accessibilità immediata alle informazioni e alla conoscenza non è reversibile ed anzi si accentuerà sempre di più, anche se dall'altro non si riesce ancora ad individuare l'unica strada efficace per affrontare in modo definitivo questa rivoluzione e si cercano quindi soluzioni che salvaguardino comunque la ormai artificiosa divisione del mondo in stati nazionali sovrani.
Dobbiamo cercare di sfruttare appieno l'opportunità che la pandemia ha offerto: in Europa, per completare il percorso verso la Federazione Europea e nel mondo per avviare quello dell'unità del genere umano scongiurando la possibilità che siano altri eventi catastrofici a suggerire la strada della Federazione mondiale.