Il ruolo di Alcide De Gasperi nell’avvio di quella che sarebbe divenuta col tempo l’Unione Europea è noto. È spesso richiamata la sua storia personale, l’essere un “uomo di frontiera” soprattutto sul piano culturale come lo erano i suoi interlocutori Adenauer e Schuman. Tuttavia credo che si possa fare qualche ulteriore riflessione per non cadere nella valutazione dell’approccio degasperiano collocandolo semplicemente in un prospettiva che mi permetto di inserire in quello che viene chiamato il funzionalismo: di fronte alla lezione che veniva dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale con la vittoria di due superpotenze , USA e URSS, si doveva arrendersi al fatto che per le nazioni medie e piccole non c’era un futuro da protagoniste se non andando verso una soluzione federativa fra loro.
Credo che il modo di vedere le cose da parte dello statista trentino fosse più complesso. Innanzitutto De Gasperi per la sua esperienza nell’impero asburgico di cui era stato cittadino fino al 1918 sapeva che un sistema politico non si tiene insieme con la fantasia storica, quella che Musil avrebbe giustamente messo alla berlina nel suo romanzo L’uomo senza qualità. L’impero dell’aquila bicipite era crollato per la sua incapacità di adeguare il suo sistema costituzionale agli standard europei e il giovane politico trentino aveva partecipato con passione all’ultimo tentativo di contrastare quella incapacità. Bisognava lavorare sulla composizione di storie politiche e di interessi diversi, non illudersi che si potesse omogeneizzare dall’alto inventandosi superiorità culturali e retaggi leggendari, magari lasciando poi la briglia lunga ai localismi.
Del resto De Gasperi, ed è una lezione che oggi andrebbe richiamata, aveva conosciuto bene la complessità del rapporto tanto con la parte slava dell’Impero asburgico, quanto con quella robusta e dittatoriale componente delle classi dirigenti ungheresi responsabili di tante resistenze alla costituzionalizzazione moderna della politica imperiale.
Quel realismo tante volte sottolineato nell’opera del ricostruttore dell’Italia postbellica lo faceva consapevole della difficoltà di comporre storie nazionali che non si potevano cancellare con un tratto di penna. Però questo non era una banale accettazione di quello che è stato etichettato dalla storiografia come l’eccezionalismo delle varie storie nazionali, per cui ciascuna non sarebbe componibile in profondità con le altre. De Gasperi, non lo si dimentichi, era un uomo che si era formato ancora nel quadro dell’ultima fase della cultura ottocentesca, che era molto “europea”, molto in ascolto delle riflessioni che si sviluppavano nelle diverse culture e che confluivano a formare un melting pot di dottrine politico-istituzionali.
Chi ha studiato quella fase sa bene quanto i dibattiti sui modelli inglese, francese e tedesco avessero formato un “idem sentire” della cultura costituzionale europea, con riflessi non piccoli anche su quella statunitense. Basterebbe ricordare i rinvii a James Bryce che troviamo nei suoi scritti e specialmente all’influsso del suo ultimo libro Modern Democracies, così come la grande attenzione che egli ebbe per tutto il dibattito politico del suo tempo, ovviamente finché non fu assorbito interamente nel dopoguerra dal suo ruolo di Presidente del Consiglio. E per inciso ricordiamo quanto gli spiacesse che i giovani democristiani, i quali formatisi sotto il fascismo non avevano ovviamente conosciuto la sua fase precedente, lo considerassero un politico senza spessore di pensiero.
Per questa sua condivisione della cultura europea conosciuta attraverso quella lente che fu la crisi di fine secolo fra Otto e Novecento, De Gasperi aveva un approccio particolare alla cultura tedesca ed è per questo che il recupero della Germania nel quadro della nuova Europa che doveva formarsi dopo la catarsi delle due guerre mondiali costituì per lui un obiettivo. Ciò non era scontato nel periodo in cui ebbe la responsabilità della politica estera italiana, con la Germania ancora sotto occupazione e privata della sua soggettività internazionale, ma lo statista trentino aveva intuito che una costruzione europea senza un ancoraggio forte alla Mitteleuropa non avrebbe avuto gambe abbastanza solide su cui reggersi, e questo non poteva avvenire senza la Germania. Oggi possiamo valutare appieno come quell’intuizione fosse particolarmente acuta: la possibilità di avere anche il mondo germanico nel quadro della democrazia occidentale non era stata cancellata né dall’autoritarismo del secondo Reich, né dal totalitarismo tirannico del terzo. Certo per De Gasperi il perno della rinascita era in quella tradizione del cristianesimo democratico tedesco, specialmente cattolico, che era stato presente nella costruzione del moderno stato unificato e di cui Adenauer era un esponente diretto (ma De Gasperi era stato in contatto con lo Zentrum tanto nella esperienza di questo sotto l’impero quanto durante la repubblica di Weimar).
Certamente in questo contesto va inquadrato un aspetto che di solito è trascurato: la scelta del nuovo leader della ricostruzione italiana per un riferimento forte agli Stati Uniti piuttosto che alla Gran Bretagna. Oggi abbiamo dimenticato che era l’Inghilterra il faro a cui guardava la tradizione liberale e democratica italiana, così come negli accordi di Yalta era a Londra che veniva affidata una sorta di tutorship su un’area europea che comprendeva l’Italia. Anche nelle classi dirigenti del nostro paese negli anni Quaranta e sin ai primissimi anni Cinquanta si guardava ancora alla Gran Bretagna come punto di riferimento, tanto più che il fascino dell’esperimento laburista ivi in corso fra il 1945 e il 1951 sembrava un interessante modello di socialismo moderato non marxista.
De Gasperi, senza entrare nella questione della validità di quel modello, intuì invece che la funzione di indirizzo internazionale della Gran Bretagna era finita, perché essa non aveva gli strumenti economici per sopportare un simile peso, ma anche perché il suo interesse “europeo” era assai limitato: Londra, impegnata in una difficile sistemazione di quello che si avviava ad essere il suo ex impero, non era disponibile a scendere su un piano di parità con quell’Europa che essa aveva in parte sconfitto e in parte salvato dal tracollo. Gli USA invece avevano bisogno di far risorgere un blocco europeo che era loro necessario per la competizione mondiale che stavano avviando con l’URSS. Quello che sarebbe poi stato definito come un “empire by invitation” non era semplicemente una coalizione fra singole nazioni, ma un meccanismo che voleva avere a disposizione un sistema integrato che potesse opporsi al tentativo sovietico di unificare l’Europa secondo l’antico disegno della propagazione della rivoluzione comunista.
Da questo punto di vista l’intervento americano in Europa, iniziato con il piano Marshall, poteva essere, pur nelle sue ambiguità, una spinta alla riscoperta di un destino solidale che doveva spingere a qualche forma di integrazione le democrazie europee. La scelta occidentale era da questo punto di vista essenziale e la minaccia sovietica poteva essere sfruttata come una sorta di “vincolo esterno” all’integrazione fra gli stati chiave dell’Europa. La battaglia per la Comunità Europea di Difesa, l’ultimo grande impegno di De Gasperi prima della sua morte, è stata emblematica in questo senso. Quell’impegno come è noto fallì per le ambizioni francesi di non scendere sullo stesso piano degli altri partner, per continuare disperatamente a volersi considerare un “impero” come si riteneva fosse ancora la Gran Bretagna: questo, a mio giudizio, è il vero motivo di fondo del siluramento della CED da parte francese, assai più che non i timori per una rinascita dell’imperialismo tedesco una volta che gli si fosse data la possibilità di riarmarsi.
Si sarebbe visto con De Gaulle (ma anche con più d’uno dei suoi successori) cosa significava per l’Europa avere a che fare con una categoria come quella della “grandeur”, così come si sarebbe sperimentato il peso che poteva giocare sull’Europa la convinzione dell’ “eccezionalismo” britannico, fino alle conseguenze che oggi stiamo sperimentando.
Sarebbe naturalmente arbitrario sostenere che De Gasperi aveva visto con chiarezza cosa sarebbe accaduto all’Europa nel corso del XX secolo. Possiamo invece dire che lo statista, allevato da una cultura cosmopolita e dal roccioso realismo di un uomo del popolo, aveva saputo mettere le basi di una presenza forte del suo paese nella storia del continente a cui esso apparteneva a pieno titolo. E mi pare una eredità e una lezione storica che non andrebbe dispersa.