Il compromesso raggiunto sul tema del rispetto dello Stato di Diritto ha consentito di superare il veto di Polonia e Ungheria che impediva l’approvazione del bilancio e, di conseguenza, la indispensabile erogazione dei fondi legati al Recovery Fund. Un compromesso che coinvolge la Corte di Giustizia e che rinvia di un anno la soluzione di un dilemma che vede alcune nazioni dell’est europeo dare una propria interpretazione ai principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell'UE nella politica internazionale nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali e significa mettere in dubbio il funzionamento del mercato interno nei meccanismi di cooperazione giudiziaria civile e penale. Non condividere questi principi ha come risultato quello di non avere un comune senso della democrazia mettendo in discussione così la fiducia reciproca.
La storia dell’Unione Europea, e prima ancora quella delle Comunità, è costellata di compromessi, è la natura stessa dell’assetto istituzionale che impone sistematicamente l’arte del compromesso tra gli Stati membri, non esistendo un potere politico sovranazionale. Sappiamo tuttavia che dovrà arrivare il momento in cui ai compromessi che rinviano la soluzione dei problemi si dovrà avere un potere politico in grado di dare risposte senza continui artifizi.
L’adesione all’Unione Europea dei Paesi dell’est che sino alla fine degli anni Ottanta facevano parte del blocco sovietico, è stata un compromesso, dal momento che era ben noto come quelle giovani nazioni si stessero avviando da poco sulla via della democrazia. L’apertura della UE è stata un segno di grande solidarietà che certamente ha aiutato quelle nazioni a stabilizzare le proprie istituzioni e ad avviare un processo di riconversione ed apertura al libero mercato. Le loro erano legittime aspirazioni cui era impossibile muovere obiezioni di carattere politico o economico pur essendo noti i gravi ritardi in cui si dibattevano. Accettandone l’ingresso tra il 2003 e il 2007 e arrivando a 28 gli Stati membri, si sapeva però che la vita istituzionale dell’Unione sarebbe diventata ancor più complessa che nel passato e che ogni decisione avrebbe richiesto tempi più lunghi nonché ulteriori e nuovi compromessi: in definitiva l’allargamento, in generale, ha indebolito l’Unione sul piano politico, ma sul piano dei principi democratici e della solidarietà tra nazioni libere è stato un grande esempio per il mondo intero. A circa venti anni dall’allargamento ad est è tempo però che alcuni aspetti di fondo vengano affrontati.
Le nazioni dell’ex blocco sovietico nel corso della loro storia hanno sempre conosciuto governi di stampo autoritario e hanno vissuto per secoli sotto il dominio o le pressioni delle vicine potenze: la Russia degli zar, l’Impero Austro-Ungarico, l’impero Ottomano o la Prussia. Con la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda per la prima volta hanno potuto affermare la propria piena sovranità e manifestare così al mondo di avere una voce. Ed è questo legame con la propria libertà che fanno coincidere con la trovata sovranità che rende loro difficile svincolarsi da un desiderio di indipendenza che favorisce un nazionalismo che finisce spesso per sfociare nell’autoritarismo. Da questa gelosia per la propria sovranità derivano così legislazioni restrittive e costituzioni che indicano nel livello nazionale il prevalere, salvo eccezioni, sul diritto internazionale, dell’Unione Europea nel nostro caso[1]. Un’Unione Europea che si trova così in un labirinto che lei stessa ha favorito anche se con obiettivi ammirevoli: favorire lo sviluppo della democrazia e sostenere gli ideali di fondo del processo di integrazione. Ma nessun governo dell’Est europeo si può definire autoritario nel senso che abbiamo conosciuto in modo tragico nel secolo scorso. Loro stessi preferiscono definirsi democrazie illiberali (Orban in Ungheria) dando in questo modo sostegno alla tesi del presidente russo Putin secondo cui la democrazia liberale in Europa ha concluso il proprio corso storico, arrivando persino a parlare di fallimento storico. In questo modo in alcune nazioni si cerca di assoggettare al controllo governativo il potere legislativo (Polonia); si attuano politiche restrittive sui media (Ungheria); si scrivono leggi che garantiscono l’impunità ai politici nei casi di corruzione (Romania - legge rientrata dopo imponenti manifestazioni di protesta); si proclamano i capisaldi della politica in Stato-Chiesa-Famiglia (Polonia o Slovenia) abolendo una legislazione favorevole all’aborto (Polonia) o introducendo una legislazione che condanna gli Lgbt o ne limita i diritti (Ungheria). La questione è come poter convivere, in seno all’Unione, con governi nazionali che hanno tendenze autoritarie. Il problema si pone oggi in particolare con alcuni Stati membri dell’est ma nulla può impedire che nazioni anche ad ovest possano vedere l’ascesa di governi che non rispettano alcuni diritti fondamentali oppure contestano la legislazione di Bruxelles facendo prevalere il diritto nazionale. Restando alla situazione oggi presente ad est, il punto è che questi governi hanno una legittimazione elettorale che viene riconosciuta a livello internazionale e da questo deriva la difficoltà di come tutelare gli interessi generali dell’Unione. Il tema è cruciale e può essere superato solo dando la possibilità agli Stati membri di votare a maggioranza, senza diritto di veto, la sospensione temporale di una nazione dai lavori e dai contributi dell’Unione sino al giorno in cui leggi in contraddizione con quelle dell'Unione non vengano abolite. Si tratta dunque di disporre di un bilanciamento dei poteri in seno all’Unione che garantisca i diritti e i doveri degli Stati membri. È la mancanza di un reale potere sovranazionale che oggi favorisce la presenza di nazioni che possono legiferare in contraddizione con i principi fondamentali dell’Unione. La divisione dei poteri resta il principio cardine alla base delle democrazie, ma è ciò che oggi manca all’Unione: un potere esecutivo, legislativo e amministrativo sovranazionali che siano di garanzia ad eventuali distorsioni. Si tratta di questioni di fondo che riguardano il futuro dell'Unione e che la Conferenza sul futuro dell’Europa dovrà porre al centro della discussione per indicare quale via l’Unione intenda percorrere: costruire le basi per dar vita a uno Stato sovranazionale dotato di poteri oppure mantenere l’attuale assetto istituzionale che condanna l’Unione a perdersi continuamente nel labirinto dei compromessi, con la conseguenza di avere derive di stampo autoritario in alcuni Stati membro e di non disporre degli strumenti per contrastarli.
[1] E’ il caso della Costituzione ungherese, polacca o slovacca. Si vedano gli Atti del Convegno “La ratifica della Costituzione Europea ed i nuovi Paesi membri dell’est: quale prospettiva?”, Università di Urbino 11 marzo 2005