Non facciamo finta che sia solo un problema di buoni e di cattivi sentimenti, di generosa apertura e di chiusura egoistica. Bisogna essere favorevoli all’accoglienza e a forme d’integrazione che non costringano gli immigrati a diventare come noi e noi ad adattarci ai loro costumi. Quando culture diverse s’incontrano ciascuna prende ciò che preferisce e scarta ciò che non le piace.  Le soluzioni estreme del multiculturalismo, che prevede la presenza di ghetti - dove ognuno conserva intatta la propria cultura - e dell’assimilazione, che prevede l’abbandono più o meno forzoso della cultura di partenza e l’adozione di quella di arrivo, hanno largamente fallito. I casi opposti dell’Inghilterra (ghettizzazione) e della Francia (assimilazione) ci hanno insegnato qualcosa.  L’integrazione che rispetti le differenze senza cristallizzarle e senza cancellarle è la via da percorrere.

Gli europei nei secoli passati hanno popolato gran parte degli altri continenti perché hanno incontrato deboli resistenze da parte delle popolazioni autoctone e perché hanno occupato zone poco densamente popolate. Non so che destino avrebbero avuto le nostre società europee se masse ingenti e crescenti di popolazioni urbane e rurali travolte dall’esplosione demografica, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione non avessero trovato sfogo nell’emigrazione transoceanica tra xix e xx secolo. Qualcosa di simile è in atto oggi, con la differenza che le migrazioni non si rivolgono verso aree scarsamente popolate, ma verso zone che sono tra le più densamente popolate del pianeta e dove, nonostante le disuguaglianze sociali, coloro che stanno peggio stanno meglio della grande maggioranza delle popolazioni dei paesi dai quali partono le migrazioni.
Non dobbiamo stupirci che i nuovi migranti trovino da un lato accoglienza e dall’altro paure e anche talvolta aperta ostilità.  A ciò si aggiunge una circostanza tutt’altro che trascurabile e cioè che da 40 anni le economie europee crescono a ritmi molto contenuti, non hanno un vero bisogno di nuova forza lavoro, anzi hanno grosse difficoltà ad assorbire la disoccupazione, specie nell’Europa mediterranea.
All’inizio, i nuovi migranti hanno bisogno di tutto: alloggi per dormire, vestiti per coprirsi, cibo per alimentarsi. Se gli arrivi sono di massa si crea una situazione di emergenza, più o meno drammatica a seconda dell’efficienza delle istituzioni  pubbliche e della mobilitazione della società civile. Poi, dopo questa prima fase, hanno bisogno di alloggi adeguati e di un lavoro. Se poi se c’è anche la famiglia, hanno bisogno di scuole e di servizi sanitari, di assistenza.
In tutti questi ambiti rischiano di entrare in concorrenza, se non in conflitto, con strati della popolazione autoctona. A cominciare dalla questione delle abitazioni. L’incontro può essere positivo, ma non è detto che sempre lo sia. Gli autoctoni, se lo possono permettere, cercheranno di andarsene in un altro quartiere e, se sono proprietari della loro abitazione, vedranno crollare il suo valore qualora cercassero di venderla. Se hanno fatto domanda per l’assegnazione di un alloggio popolare temeranno di vedersi scavalcare dai nuovi arrivati, non importa se il rischio sia reale oppure solo immaginario.
C’è poi il problema del lavoro. E’ vero che ci sono occupazioni che la popolazione locale, ancorché disoccupata, non è disposta a fare. Se non ci fossero ucraine, bielorusse, rumene poche donne locali farebbero volentieri le badanti.  Lo stesso nella pulizia delle strade o nell’edilizia. Molti locali sarebbero anche disposti a fare questi mestieri e altri se la presenza di migranti non contribuisse a mantenere la retribuzione a livelli non accettabili per i lavoratori locali. C’è poi il grande problema del lavoro nero, del lavoro in imprese fantasma che operano più o meno clandestinamente e non applicano le norme e tanto meno i contratti di lavoro. E’ un’area assai vasta, che confina con l’economia criminale. Insomma, la prospettiva di un lavoro onesto, pulito, regolare e tutelato per molti immigrati è un miraggio, senza un lavoro vero é difficile che si possa innescare un processo d’integrazione. Il risultato è che si forma uno strato sociale inferiore anche a quello più basso della popolazione autoctona. Gli immigrati finiscono per essere gli ultimi degli ultimi: anziché generare solidarietà tra gli ultimi ciò rischia di scatenare paure e conflitti tra tutti coloro che in qualche modo si sentono minacciati.
Non sempre per fortuna i rapporti sono di ostilità. La via dell’integrazione è più facilmente percorribile quando gli immigrati arrivano o si fanno raggiungere dalle famiglie e quando i bambini incominciano a frequentare le scuole di quartiere. Se il rapporto quantitativo tra famiglie locali e famiglie immigrate non è troppo squilibrato è abbastanza probabile che i rapporti di amicizia tra i bambini si estendano lentamente anche alle famiglie e si crei un “buon vicinato” e anche legami deboli, ma importantissimi, di mutuo aiuto.  Può succedere che gli immigrati siano accolti con favore, com’è successo nel caso famoso di Riace. Le aree interne e spopolate di molte zone di montagna potrebbero accogliere una parte di immigrati che potrebbero rivitalizzarle e frenarne il degrado. Le “buone pratiche” ci sono, ma sono spesso osteggiate più che sostenute.

Sulla mancata o riuscita integrazione giocano molti fattori culturali, sia da parte degli immigrati che della società che li riceve. Ad esempio, bisogna ammetterlo, il colore della pelle fa differenza. Latino-americani, rumeni, turchi, ma anche medio-orientali non sono così “diversi” dagli europei, mentre la “diversità” degli africani è molto più visibile. E’ vero che le razze non esistono, come hanno dimostrato gli scienziati di genetica delle popolazioni, ma ciò non toglie che esistano nella testa della gente e che questa “rappresentazione” influenzi comportamenti e atteggiamenti. Poi fa differenza se si tratta di uomini maschi giovani oppure di famiglie: i maschi autoctoni temono che le “loro” donne possano essere insidiate e le donne temono di poter essere oggetto di violenza. Anche la religione fa differenza: gli estremisti religiosi fanno più paura, soprattutto se sono islamici. La possibilità di comunicare fa una grande differenza: gli albanesi, a suo tempo, si sono integrati molto più facilmente perché per anni avevano ascoltato la tv italiana, mentre nei ghetti si può vivere per anni senza sapere una parola della città che sta al di fuori.
L’integrazione è un processo, l’esito è incerto, dipende dalla capacità di integrarsi e di integrare, dalla volontà di conservare ma nello stesso tempo dalla disponibilità a modificare la propria identità culturale.
È un processo maledettamente difficile, ma non impossibile. Quando diventa impossibile? A mio avviso, quando viene varcata una soglia oltre la quale le tendenze al rigetto prevalgono sulle capacità di integrazione. Non c’è una regola che stabilisca scientificamente dove è collocata questa soglia. Il problema è politico, l’immigrazione è diventata oggi in Europa uno dei temi (e in certi casi il principale) intorno al quale si vincono o si perdono le elezioni. Il successo dei partiti e dei movimenti nazionalisti è riconducibile in misura significativa alle politiche dell’immigrazione e ai loro fallimenti. Quando questi partiti e movimenti rischiano di vincere o vincono effettivamente, com’è successo in Italia, vuol dire che la soglia è stata superata, che l’intolleranza cresce a un livello preoccupante, che s’innesta un degrado della vita civile e della sicurezza che aprono la strada alla crisi della democrazia e all’avvento di regimi autoritari. Quando pezzi consistenti della classe operaia e dei ceti medi vanno a destra, vuol dire che la sinistra non ha capito qualcosa.

La gamma delle opzioni politiche in tema di immigrazione dipende da dove viene messa la soglia tra i due estremi: da un lato nessuna soglia, cioè accoglienza di tutti coloro che per qualsiasi ragione vogliano arrivare e dall’altro lato muro invalicabile, come quello che Trump vuole erigere tra Messico e Stati Uniti.
Ebbene, è rischioso per la democrazia non mettere una soglia. Occorre invece stabilire: a) dei criteri di ammissione; b) procedure per attuare la selezione; c) quanti immigrati possano essere ammessi; d) quanti ne possono essere ammessi ogni anno; e) dove debbano essere collocati in una fase iniziale, fissandone la durata; f) come e dove rimandare coloro che non sono stati ammessi, evitando di creare una massa di “clandestini”.  E’ difficile decidere pure chi ha più diritto di entrare: chi fugge dalle guerre o è perseguitato per le sue convinzioni, oppure chi fugge dalla povertà? Chi è legittimato a prendere queste decisioni politiche? A quale livello deve svilupparsi la lotta politica per stabilire l’altezza della soglia? Dov’è l’arena dove si possono confrontare coloro che vogliono, come me, una soglia bassa e coloro che vogliono innalzare i muri?

E’ a questo punto che il discorso sull’immigrazione incontra quello sull’Unione Europea. Se deve essere ogni stato membro a fissare l’altezza della soglia, vuol dire rimettere i confini tra gli stati, i passaporti, le polizie di confine, i muri, il filo spinato e tutto quanto speravamo di aver archiviato nella memoria.  Vuol dire demolire quanto è stato fatto negli ultimi 70 anni. Ogni stato cercherà di scaricare sul vicino tutti quelli che si rifiuta di accogliere. D’altra parte, l’UE, così com’è oggi, non è assolutamente in grado di prendere decisioni che vincolino i singoli stati sull’immigrazione. Gli accordi di Schengen e di Dublino hanno ampiamente dimostrato l’impotenza di un’Unione intergovernativa che, su questioni importanti, si basa sull’unanimità degli stati membri. L’UE non ha né i poteri né le risorse per fare un’efficace politica in tema d’immigrazione, ma per questo non ha neppure colpe e responsabilità.
Le colpe e le responsabilità sono dei governi nazionali che non hanno voluto dotare l’Unione i poteri e le risorse per far fronte alla situazione. L’UE è diventata il facile capro espiatorio al quale attribuire tutto quanto non va nelle nostre società, anche l’assenza di una ragionevole politica sull’immigrazione. Mettere una soglia, gestire i flussi, regolarizzare quelli che sono comunque riusciti a entrare, misure già di per sé difficili da attuare, non risolvono comunque il problema. Il problema è l’esistenza di un quarto dell’umanità che sta più o meno bene e tre quarti che stanno più o meno peggio. In un mondo globalizzato non si potrà evitare che i secondi premano sui primi per condividere almeno alcuni dei loro benefici.


(*)  Si tratta di una versione ridotta (autorizzata dall’autore) dell’articolo “Sulla sfida dell’immigrazione si gioca il futuro dell’Unione Europea”, pubblicato sulla rivista “Una Città”, quaderno nr. 5, Aprile 201.

 

  

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