Mercoledì 10 gennaio, presso la Biblioteca del Senato, si è tenuta la presentazione del volume di Thomas Mann Moniti all'Europa, con Introduzione di Giorgio Napolitano, Presidente emerito della Repubblica. Ha moderato i lavori Monica Maggioni, Presidente della RAI, la quale ha ricordato che il testo era già stato pubblicato da Mondadori nel lontano 1947, subito dopo la conclusione della guerra. Sergio Zavoli, Presidente della Biblioteca del Senato, ha sottolineato in apertura l'attualità dell'opera in un momento in cui gli egoismi si sostituiscono ai valori e gli errori del passato si ripresentano sulla scena con particolare virulenza.
E' toccato al filosofo Massimo Cacciari collocare l'opera nella temperie storica che l'ha vista nascere ed indicarne poi i principali ammaestramenti per il presente. Il punto di partenza della riflessione politica di Mann sono le Considerazioni di un impolitico, scritto durante la Prima guerra mondiale. Nelle Considerazioni Mann faceva propria la celebre opposizione tra la Kultur tedesca e la Zivilisation di matrice francese ed anglosassone. Finiva così per giustificare il nazionalismo tedesco e la guerra tedesca e per diventare un corifeo dell'antipolitica e dell'antidemocrazia. Profondamente influenzato da Nietzsche, in quell'opera reazionaria ma geniale Mann aveva contrapposto la vita e tutte le sue più genuine manifestazioni alla miseria della democrazia, dei suoi metodi e delle sue procedure.
Appena quattro anni dopo, nel 1922, Mann pronuncia a Berlino il primo del discorsi raccolti nel volume ora riedito: Della Repubblica tedesca. Non si tratta, ha osservato Cacciari, di una ritrattazione o, tantomeno, di una sconfessione del suo precedente scritto. Mann si propone invece quello che Hegel avrebbe definito un “superamento”. Lo attua cercando di dimostrare che non v'è alcuna opposizione tra illuminismo francese e romanticismo tedesco, che i grandi filosofi ed i grandi poeti di quella stagione straordinaria che ha segnato la rinascita prima ancora culturale che politica della Germania non sono stati affatto i negatori delle esigenze di quel “grande Stato” che è l'umanità. Mann rivendica così le radici rivoluzionarie di Fichte, Schelling, Hegel, Hölderlin e Novalis. La democrazia non può essere però ridotta a pura tecnica politica. Bisogna seguire l'esempio del grande cantore della democrazia americana, Walt Withman, e dare un forte contenuto simbolico al discorso politico. Altrimenti si riduce a pura amministrazione dell'esistente. Su questa base il grande scrittore di Lubecca afferma che la democrazia non può che fondarsi sull'etica della responsabilità, così ben delineata da Max Weber qualche anno prima, ma deve trattarsi di una responsabilità completa, globale, capace di individuare e giustificare razionalmente sia i mezzi che i fini. Le conseguenze dell'azione politica vanno indicate “con esattezza”, perché viviamo in un'epoca tecnico-scientifica. Altrimenti si finisce nella pura chiacchiera, che in democrazia non è certo ininfluente, in quanto prepara la “notte gelida” preconizzata dallo stesso Weber.
La democrazia si fonda sul politeismo dei valori, che non può però trasformarsi in indifferenza dei valori. L'autosuperamento delle precedenti posizioni antidemocratiche viene attuato da Mann attraverso un rilettura di Nietzsche. La cultura, la Bildung, può educare la civilizzazione, cioè il Beruf inteso come specializzazione, se non rinuncia ad una concezione olistica, globale dell'uomo. E' la concezione della grande borghesia del passato, così ben incarnata da Goethe e senza alcun rapporto col capitalismo in quanto tale. Dalla fine di quel mondo è nato il disincanto di Nietzsche e sono nate le Considerazioni di Mann, mai sconfessate, anche se superate.
Paolo Mieli, Presidente di RCS libri, ha ripercorso il cammino di Mann: dal successo dei Buddenbrook, che lo consacrò come il nuovo Goethe, all'acceso interventismo che lo contrappose al fratello pacifista; dalle Considerazioni di un impolitico all'accettazione della Repubblica di Weimar ed ai 55 discorsi rivolti ai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Passando all'Introduzione, Mieli ha osservato che Napolitano si è soffermato non a caso sul breve governo Stresemann (agosto – novembre 1923), caduto per la spaccatura della SPD. In quella occasione il Presidente della Repubblica Ebert ricordò ai suoi compagni di partito che le conseguenze di quella scelta sciagurata sarebbero durate per almeno 10 anni. Infatti, nel 1933 Hitler prese il potere. Solo tre anni dopo e per le insistenze dei figli Mann scrisse il primo articolo contro il nazismo, e non senza incertezze. Finita la Seconda guerra mondiale, non volle tornare in patria per non fare la figura del “tedesco buono” né accettò mai di diventare il partigiano dell'Occidente o di rinnegare le Considerazioni. Giustificò invece il suo essere democratico come una reazione al fascismo e al nazismo ed arrivò a riconoscere di essere diventato talvolta “abbastanza comico”.
L'intervento più atteso è stato naturalmente quello del Presidente Napolitano. Tre sono state le ragioni che l'hanno convinto a scrivere il suo saggio introduttivo; la proposta di Renata Colorni, a cui non si poteva dire di no; il profondo interesse di Mann per i rapporti tra politica e cultura; le vicende del 1923, viste come un monito sempre attuale. Il grande merito di Mann è di non aver mai ceduto all'avversario la difesa del germanesimo e di aver però rovesciato la prospettiva dei nazionalisti: non l'Europa deve diventare tedesca, ma la Germania europea. Riandando all'annus horribilis, il 1923, Napolitano ha ricordato le gravi colpe della sinistra SPD nella caduta del gabinetto Stresemann, ma non ha mancato di esprimere un giudizio molto duro anche sui comunisti tedeschi, succubi del Comintern. Con accenti personali ha poi riconosciuto quanto sia stata importante per il movimento operaio italiano e per lo stesso PCI la “stella della Germania europea”.
Nella fase conclusiva è nato un vivace dialogo tra Napolitano e Cacciari. Quest'ultimo ha ricordato che il liberale Croce recensì positivamente le Considerazioni di Mann, perché lo univa al grande scrittore tedesco una concezione aristocratica della politica come governo dei migliori, fondato sul compromesso tra la borghesia illuminata (i grandi banchieri) e le élite più consapevoli del movimento operaio. Su questa base, ha osservato Napolitano, Croce aveva difeso la figura e l'opera di Giovanni Giolitti, un politico che si circondava di uomini dubbi, ma che era capace di piegarli agli interessi pubblici. “Purtroppo oggi – ha concluso amaramente Cacciari – sono scomparsi tanto il movimento operaio quanto la borghesia.” “E sono scomparsi – ha aggiunto Napolitano – anche i Weber, i Mann, i Keynes, i Croce.”