Pierre Moscovici, Commissario europeo agli Affari economici e finanziari

“È istituita l’imposta sulle transazioni digitali, relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici rese nei confronti di soggetti residenti nel territorio dello Stato (diversi da taluni soggetti tassativamente previsti) … nonché delle stabili organizzazioni di soggetti non residenti situate nel medesimo territorio”.E’ il testo della legge di Bilancio 2018 (commi da 1010 a 1016) che introduce nell’ordinamento italiano la cosiddetta “web tax”. Essa si applica con aliquota del 3 per cento sul valore della singola transazione, che consiste nel corrispettivo dovuto, al netto dell’IVA e si applica nei confronti del soggetto prestatore, residente o non residente in Italia, che effettua nel corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni superiore alle 3.000 unità.Sembrerebbe una rivoluzione nel campo fiscale per un Paese come il nostro, che “reagisce” a situazioni di squilibrio nella soggettività passiva rispetto alla tradizionale tassazione fino ad oggi conosciuta.Oltre il danno la beffa. Sì perché in Europa c’è stato un fatto, anzi più fatti, che hanno destato attenzione. Da aziende come Google (per la “volatilità” dei ricavi dalla vendita di slot pubblicitari), Facebook (per la cessione dei dati detenuti a società di strategia), Booking, Apple, Expedia, Airbnb, Spotify o Uber (per gli abbonamenti ai servizi digitali) si è minata la “regola aurea”, tassazione assicurata dove è prodotto il ricavo. Da una parte il profitto per i “mostri” del web, dall’altra un mancato introito non solo per lo Stato italiano ma per gli Stati europei, presi ormai nella morsa non più solo concettuale della definizione di branch, di stabile organizzazione, poco fisica molto virtuale. Basti pensare che attualmente, le imprese digitali vengono tassate con una aliquota media del 9,5% rispetto al 23,2% di una società tradizionale.«Le regole attuali non permettono ai paesi membri di tassare correttamente le imprese digitali in Europa quando queste non hanno presenze fisiche – ha detto il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici –. Questa situazione rappresenta un buco nero per gli stati membri, buco nero che aumenta sempre più poiché la base imponibile si riduce. Ecco il motivo per cui oggi proponiamo una nuova norma giuridica e una tassa provvisoria applicabile a tutte le attività digitali». Il 21 marzo scorso la Commissione europea ha presentato la sua “idea”, una web tax europea al 3% da applicare a società con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro ed uno europeo sopra i 50 milioni, che secondo i primi calcoli dovrebbe portare a Bruxelles almeno 4,8-5 miliardi all'anno di nuove entrate.Esemplificazione di doppio canale, quello italiano, nazionale, e quello della Commissione, europeo.Ma una riflessione è d’obbligo. Davanti a questo ennesimo “buco” di competenze è richiesto un maggiore coinvolgimento del livello europeo, non una semplice armonizzazione e/o parallelismo giuridico nazionale, ma una responsabilità sovranazionale europeo che imponga un trattamento fiscale uniforme sul territorio europeo proprio per «evitare azioni unilaterali» e che creerebbero un sistema «di risposte nazionali che danneggerebbe il nostro mercato unico», come ammette la Commissione. Ma non è la soluzione. Il mercato europeo, e mondiale, è preda del gap fiscale, di quel cuneo che le multinazionali soffrono e che si è creato per la collocazione dei profitti o in zone fiscalmente privilegiate (paradisi) o in attività difficilmente inquadrabili per la tassazione.Gli Stati europei hanno dimostrato ad oggi una capacità di reazione a disincentivare l’ allocazione di risorse nei paradisi fiscali. Le aziende multinazionali (ri)conoscono nel mercato il solo palcoscenico di confronto, dove vige la regola, appunto, del profitto da garantire al proprio finanziatore. La lotta ai paradisi fiscali si è trasformata (dal 2001) in una rapida verifica soggettiva degli Stati fiscalmente “canaglia” per poi passare ad un inquadramento oggettivo che distingue i “buoni” dai “cattivi” Stati sulla base del confronto del livello di tassazione.L’imposizione e la conseguente distribuzione del suo esito è per garantire risorse alle politiche europee. Queste sono versate dagli Stati nazionali, come la politica fiscale potenzialmente utile al bene comune europeo.

E’ necessario oggi un salto di qualità che superi la continua tensione tra le discipline fiscali nazionali in tema di imposizione diretta (incluse le misure per evitare l’evasione fiscale e le doppie imposizioni) che riguardano la “Persona” (fisica o giuridica) e alla fiscalità indiretta che attiene invece ai “Beni” dove l’Unione Europea può coordinare e armonizzare la legislazione relativa. In Europa, parlare di “fisco” significa mettersi nell’arena conflittuale della dialettica degli Stati nazionali perché a Trattati vigenti,  ex art. 113 del TFUE, è il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consulta­zione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, che adotta le disposizioni che riguardano l'armonizzazione delle legislazioni relative, in generale, alle imposte indirette. Anche se si volesse mirare esclusivamente ad assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di con­correnza, come prescrive il Trattato, ci sarebbe bisogno di un’iniziativa comune, e in questo la Commissione europea può ancora molto.

Il 21 marzo, infatti, la Commissione ha programmato una strategia di diniego di transito di fondi comunitari UE a giurisdizioni fiscali non cooperative grazie ad una lista comune dell'UE aggiornata periodicamente (la prima lista è stata adottata e pubblicata nel dicembre 2017).

Gli orientamenti adottati dovrebbero assicurare in particolare che i fondi di investimento e di sviluppo esterni dell'UE non possano transitare o essere canalizzati attraverso entità situate in paesi che compaiono sulla lista comune dell'UE. I nuovi requisiti mirano ad allineare l'obiettivo dell'UE di lottare contro l'elusione fiscale a livello globale con le norme che disciplinano l'utilizzo dei fondi dell'UE da parte delle istituzioni finanziarie internazionali (IFI) come la Banca europea per gli investimenti (BEI), le istituzioni finanziarie di sviluppo (DFI), compreso il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile (EFSD), e altre controparti ammissibili.

Pierre Moscovici, è stato chiaro: "Queste contromisure a livello dell'UE dovrebbero fungere da campanello d'allarme per tali giurisdizioni in quanto mostrano che l'UE è seriamente intenzionata a contrastare l'elusione fiscale su scala mondiale." Gli Stati dell’UE faranno “squadra” in questo percorso o le esigenze di bilancio nazionale porteranno ancora a veti incrociati?


Fonti:

  1. Commissione europea - Comunicato stampa Tassazione equa: la Commissione mette in atto le prime contromisure dell'Unione sulle giurisdizioni fiscali non cooperative figuranti sulla lista comune dell'UE, Bruxelles, 21 marzo 2018 (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-2245_it.htm)
  2. Ue: subito una web tax del 3% sul fatturato delle imprese digitali di Beda Romano, 21 marzo 2018 Il Sole 24 ore (http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-03-21/ue-subito-tassa-3percento-fatturato-imprese-digitali-110906.shtml?uuid=AExrkZKE)
  3. Arriva la web tax europea: 3 per cento sui ricavi da pubblicità e dati di Michela Rovelli, Corriere della sera (http://www.corriere.it/tecnologia/economia-digitale/18_marzo_21/arriva-web-tax-europea-3-cento-ricavi-pubblicita-dati-9e7fff5a-2cf8-11e8-af9b-02aca5d1ad11.shtml?refresh_ce-cp)
  4. Web tax - esiti consultazione UE, servono norme fiscali adeguate di Viola De Sando, 12 Marzo 2018, Fasi (https://www.fasi.biz/it/notizie/novita/18017-web-tax-esiti-consultazione-ue-servono-norme-fiscali-adeguate.html)

  

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