Valdis Dombrovskis, vice-presidente della Commissione europea

Il numero 2016/3 di questo giornale ha presentato un breve articolo dal titolo “La demagogia è il prezzo della non-Europa”. Facendo nuovamente riferimento al celebre passo gramsciano che definisce la crisi come quell'intervallo temporale in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, ancora oggi possiamo riconoscere tale condizione nell'attualità politica europea e identificare i “fenomeni morbosi” derivanti dalla crisi stessa nella proliferazione dei demagoghi: soggetti politici che si insinuano nelle spaccature di una società in crisi, facendo leva su di esse per ottenere favore.
Sostanzialmente, gli stati europei si trovano nello stesso limbo da allora. Nonostante le discussioni, i tentativi e alcune effettive manovre, le forze della disunione crescono imperterrite.
Il salto politico in senso federale e il superamento della logica intergovernativa, come i federalisti ben sanno, sono l'unica strada possibile per lo sviluppo del Vecchio Continente. Rimane un problema: come convincere il popolo europeo dell'inservibilità delle strade alternative?
Se difficile è illuminare il baratro al quale conduce il sentiero lastricato di buone intenzioni indicato dai demagoghi, una soluzione è suggerita dal Vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis, il quale ha recentemente affermato che “l'anticorpo ai populismi è la lotta senza quartiere alle diseguaglianze”.
Il consiglio del Vicepresidente è banale quanto illuminante: è impossibile fermare la retorica appassionata e violenta dei populisti con la pacatezza di un discorso ragionevole; piuttosto, è saggio rimarginare le ferite sulle quali quella stessa retorica preme, prevenendo così la sua efficacia.
L'Unione europea, a tal fine, dovrà inevitabilmente rafforzare la sua dimensione sociale. In altre parole, l'UE dovrà dare risposte concrete in merito alle grandi problematiche sociali che sconvolgono il continente, tra cui la disoccupazione e la crisi migratoria.
In tal senso, la Commissione europea ha mosso un primo importante passo con l'adozione del Pilastro europeo dei diritti sociali, già commentato su questo giornale (2017/6). Come affermato sul sito della Commissione, si tratta di “20 principi e diritti fondamentali per sostenere il buon funzionamento e l'equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale […] destinato a servire da bussola per un nuovo processo di convergenza verso migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa

Dal pensiero, poi, bisogna passare all'azione. Risanare problematiche sociali come la disoccupazione dovuta ai cicli economici implica un profondo impegno in termini di investimenti finanziari; la complessità della questione coinvolge quindi anche il tema del bilancio dell'Unione. Lo spiega con acribia Carlo Altomonte, docente di Economia dell'integrazione europea presso l'Università Bocconi, in una videointervista rilasciata a Il Sole 24 Ore. Riferendosi al Quadro finanziario pluriennale, un piano di spesa relativo all'utilizzo dei fondi del Bilancio europeo, afferma come la Commissione abbia mostrato interesse a voler superare il vecchio modello del piano, legato in particolare al finanziamento del settore agricolo e delle spese regionali degli stati, riducendo queste spese tradizionali e richiedendo un contributo statale maggiore.
Il nuovo spazio di bilancio che si verrebbe a creare attraverso questa manovra potrebbe essere utilizzato per intervenire proprio sulle suddette spaccature sociali; Emmanuel Macron stesso suggeriva il loro impiego per creare un fondo di ammortizzazione per stati in difficoltà.
Un'ulteriore idea, già avanzata dai federalisti in forma di petizione sull'economia dopo il Congresso di Ancona del 2015 e rilanciata dal ministro Padoan, si pone in questa direzione: creare un sussidio europeo di disoccupazione, e cioè uno strumento capace di finanziare i sussidi nazionali per i cittadini che hanno perso il lavoro.
Sono due le possibili articolazioni di questo sistema: da un lato, l'UE potrebbe elargire direttamente questi finanziamenti ai cittadini disoccupati, senza l'intermediazione degli stati nazionali, determinando l'acquisizione totale di una prerogativa importante ma rendendone più difficile l'attuazione; dall'altro, gli stati nazionali potrebbero ricevere tali finanziamenti per rinvigorire i propri sussidi, agendo in prima persona da distributori dei fondi. Il secondo schema, sicuramente meno ambizioso, risulterebbe più attraente agli occhi di coloro che difendono imperterriti la sovranità nazionale.

Come ricordava Brando Benifei nel numero 2015/5 del giornale, “in uno studio elaborato dall'Unità di Ricerca del Parlamento europeo e richiesto dalla Commissione parlamentare Occupazione e Affari Sociali (EMPL) è stato quantificato che i potenziali benefici di un sussidio europeo di disoccupazione, calcolati come strumento in grado di contenere la riduzione del PIL nei Paesi più colpiti dalla crisi, avrebbero potuto salvaguardare circa 71 miliardi di euro nel periodo compreso tra il 2009 e il 2012”.
Oltre agli ineludibili vantaggi economici, l'Europa potrebbe trarre un netto miglioramento di immagine in termini di percezione. In queste proposte è centrale il concetto di solidarietà; è evidente, difatti, che si tratterebbero di finanziamenti a fondo perduto.
Forse è questa l'ultima via da percorrere prima della grande svolta politica: l'UE, così spesso percepita come fredda sede della tecnocrazia e dei poteri finanziari, potrà e dovrà riaffermarsi come attore politico profondamente umano, immerso nella realtà e vicino alle periferie del continente.

  

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