Il 10 dicembre 2018, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il Regno Unito ha il potere di revocare il recesso dall’Unione Europea, confermando la propria partecipazione all’Unione alle immutate condizioni che aveva quale Stato Membro. In quel caso, il procedimento di recesso termina immediatamente.
Se da un lato la Commissione e il Consiglio non festeggiano – la loro tesi era infatti che il recesso non potesse essere revocato unilateralmente – il governo di Sua Maestà si trova con un nuovo punto di discussione nel già frastagliato e complesso dibattito pubblico su Brexit. La sponda favorevole per i Remainer è evidente: la sentenza della Corte rappresenta una leva per forzare lo stretto spiraglio per un secondo referendum o, comunque, per un’inversione di rotta guidata dal Parlamento.
Tra le numerose incertezze che caratterizzano il sentiero della Brexit, rimane un solo punto fermo: un governo nel caos. Theresa May, trovatasi a raccogliere i cocci del disastroso capolavoro di Cameron, resiste tra l’incudine – un’ampia ala del partito conservatore che lamenta una cattiva gestione del negoziato con l’Unione – e il martello – i Remainer che faranno di tutto da qui al 29 marzo 2019 per sabotare l’uscita.
Mentre scrivo, la premier inglese ha ottenuto il rinvio del dibattito parlamentare su Brexit a data da destinarsi, siccome il governo non avrebbe i numeri necessari a sostenere un voto sulla clausola di backstop. Nell’accordo con l’UE, infatti, non è stata raggiunta una decisione sulla gestione del confine irlandese: le parti hanno allora deciso di non decidere, rinviando la questione a un futuro accordo. Se non si trova questo futuro accordo, si attiva la clausola di backstop, per cui l’Irlanda del Nord resta nel mercato unico, mentre il resto del Regno Unito nell’unione doganale: soluzione che evita di toccare il confine aperto tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, sancito dagli accordi del Venerdì Santo, ma che non piace agli unionisti che – grazie all’autogol dei conservatori alle ultime elezioni – sono diventati indispensabili per la maggioranza alla Camera dei Comuni. Ecco perché Theresa May attende di rinegoziare la clausola prima di tornare in Parlamento. Peccato che l’UE non sia disponibile a riaprire il testo già negoziato.
Intanto l’economia inglese rallenta, con le previsioni di crescita per il 2018 tagliate da un ottimistico 2% (National Institute of Economic and Social Research, febbraio 2018) al 1,4%. Per contestualizzare i dati, nel 2016 la Zona Euro cresceva del 1,7%, il Regno Unito del 1,8%, l’Italia del 0,8%. Nel 2018 la Zona Euro crescerà del 2,4%, la malconcia Italia del 1,5% e il Regno Unito del 1,4%, diventando così fanalino di coda dell’intera UE. A questo dato allarmante si aggiunge un crollo strutturale della Sterlina oltre il 10%, un forte aumento dell’inflazione e una sostanziale stabilità dei salari, il che danneggia il potere d’acquisto delle famiglie.
Un’uscita senza accordo, ha annunciato la Bank of England, farebbe crollare il Pil dell’8% nel giro di un anno; la sterlina perderebbe il 25% del suo valore e l’inflazione salirebbe al 6,5%. Uno scenario peggiore della crisi finanziaria globale che dieci anni fa ha causato una decrescita del 6,25%.
In aggiunta a uno scenario economico tutt’altro che rassicurante, restano sul tavolo altri temi spinosi come l’indipendentismo scozzese. Non si ferma neppure la guerra di posizione dei laburisti, guidati da un Corbyn in ascesa, che attende paziente l’apertura della breccia nella maggioranza per conquistare il governo del paese – in qualsiasi condizione esso si trovi il 30 marzo 2019.
Insomma, tutti i dati sembrano confermare l’esatto opposto della profezia di Farage, secondo cui non ci sarebbe stata più nessuna Unione Europea con cui condurre i negoziati per l’uscita: a rischio oggi è l’unità della Gran Bretagna.
Fin qui, però, ho parlato di fatti. E i fatti ci servono per analizzare il passato, non per disegnare il futuro. Non dobbiamo stupirci, quindi, se l’elettorato britannico rimane ancora saldamente euroscettico, pur con qualche flessione ma certamente non quella che ci si attenderebbe da un terremoto politico ed economico senza precedenti. Questo ci suggerisce alcune considerazioni.
In primo luogo, non bisogna sottovalutare l’importanza delle narrazioni collettive su cui la società si basa. Se i cittadini britannici pensano che l’Unione Europea sia una malvagia matrigna che li costringe a subire regole e vincoli odiosi, il crollo dell’economia dopo l’exit non farà loro cambiare idea. Se nel Sud Europa si ritiene che l’Europa a guida franco-tedesca voglia affamare i poveri e distruggere il welfare, il Quantitative Easing non basta a convincere le persone del contrario. In altre parole, per recuperare il consenso popolare alla costruzione europea, non sarà sufficiente indicare le pur evidenti conseguenze negative dell’exit.
Se c’è qualcosa da imparare dalla Brexit, è che una battaglia di progresso non può basarsi sulla paura dell’alternativa. Cameron ha impostato così il referendum, e ha fallito. E non è l’unico ad aver assaporato questo fallimento. Per quanto possa essere allineato alla realtà e giustificato dai fatti, lo spauracchio di cosa succederebbe senza l’Unione Europea rischia di trasformare il progetto europeo in un progetto di conservazione.
La Brexit, infatti, non ha fermato l’avanzata dei sovranisti in Europa e la battaglia per una maggiore unione è lontana dall’essere vinta.
Anzi, i nemici dell’Europa sembrano aver imparato la lezione di Brexit, facendo rientrare le richieste di uscita e riorganizzandosi su nuove parole d’ordine: sicurezza, identità, lotta all’immigrazione. È solo questione di tempo che gli euroscettici trovino punti comuni su cui costruire una proposta nuova.
Perciò, sarebbe un’occasione persa non trarre, anche noi, una lezione da Brexit.
Tommaso Padoa Schioppa (Che cosa ci ha insegnato l’avventura europea, “Lettura” il Mulino, 1999), avvertiva che l’integrazione europea “si è costituita per l’effetto di tre forze: l’azione di governi illuminati (da Adenauer a Kohl, da De Gasperi ad Andreotti, da Schumann a Mitterand); la visione ispirata di uomini politici fuori dal comune, […] (specialmente Monnet, Spinelli, Delors); l’adesione profonda del popolo europeo all’obiettivo perseguito, adesione intuitivamente percepita dagli uomini politici.”
Come il dilagante sovranismo continentale, il referendum del 2016 ci deve ricordare l’importanza, per la costruzione europea della “adesione profonda del popolo europeo all’obiettivo perseguito”. Questa adesione non deve necessariamente essere adesione alla bontà di quanto fatto finora, né tramutarsi in uno spirito di conservazione dell’esistente. È chiaro a tutti che l’appoggio popolare ha iniziato a scemare dal 2008 in avanti, causa una crisi economica che l’Unione non era pronta ad affrontare. Mancando il “terzo pilastro” (l’adesione del popolo europeo), i fiacchi tentativi di avanzamento si sono allora basati su governi sempre meno illuminati e uomini politici sempre meno ispirati.
Ma l’adesione profonda del popolo europeo può essere recuperata con le prossime elezioni europee. In questo i partiti hanno una grande responsabilità, quali corpi intermedi nella nascente democrazia europea, che sintetizzano le esigenze dei singoli e delle associazioni per trasformarle in atti legislativi europei. L’occasione delle prossime elezioni non va sprecata. La spaccatura della storica alleanza tra socialisti e popolari e la nascita di un nuovo terzo polo liberale può realmente politicizzare lo scontro tra opposte visioni delle politiche che l’UE deve perseguire i prossimi cinque anni. Nella prossima campagna elettorale occorre che nascano agende politiche europee contrapposte, in grado di riempire di contenuti politici e ridare slancio alle proposte di avanzamento istituzionale. Quella sul bilancio è la nostra battaglia, ma solo i partiti europei – in questa nuova fase – potranno indicare cosa vorranno fare delle risorse aggiuntive, e solo i cittadini potranno scegliere quali proposte premiare. La sicurezza è un tema che va risolto con la difesa europea e con la politica estera unica, ma solo i partiti europei possono coinvolgere i cittadini nella scelta di come e per quali fini usare questi strumenti.
Insomma, anche se Brexit rappresenta plasticamente il fallimento dell’uscita dall’UE, questo non è sufficiente per spostare nuovamente il favore popolare dalla parte dell’integrazione. L’Europa non si è fatta sulla paura della guerra, ma sulla speranza della pace. Le Comunità Europee sono nate e cresciute su una promessa di progresso economico, non sulla paura della crisi. L’UE deve tornare a stringere un patto con i propri cittadini, che riguardi le speranze del loro futuro, e di quello dei loro figli, abbandonando la minaccia che fuori dalla casa europea la tempesta è forte.