Dimostrzione in occasione del Consiglio Europeo, Roma 1975

L’alternativa appare ormai chiara: è la progressiva dissoluzione dell’Unione e il ritorno al nazionalismo. Sarebbero esiti funesti per la sicurezza, la pace e il benessere non solo dei cittadini europei ma di quelli dell’intero pianeta.

Per la sicurezza, per l’immigrazione, per la difesa comune, per la crescita, per l’occupazione, per investimenti su altri beni pubblici europei

Che l’Unione europea soffra di un deficit di democrazia è ormai un luogo comune ripetuto da molti anni. Tuttavia questa diagnosi va approfondita, se si vogliono individuare con qualche speranza di successo le necessarie e possibili terapie.

Occorre anzitutto distinguere, tra le ragioni di crisi della democrazia, quelle che sono oggi comuni a tutte le democrazie avanzate da quelle specifiche dell’Unione europea, perché sarebbe fuorviante ritenere, come troppo spesso si tende a fare, che alla carenza di democrazia al livello europeo si possa e si debba provvedere ricorrendo alle democrazie nazionali, che sono concepite da molti come la sola fonte legittima e reale della democrazia stessa.

Ciò è sbagliato sotto due punti di vista, l’uno relativo all’idea stessa di democrazia politica, l’altro relativo alla realtà attuale delle istituzioni politiche nazionali.

Da un lato, infatti, il principio democratico per il quale il potere normativo e il potere di governo sono conferiti dal popolo, fonte della sovranità, e periodicamente rinnovati con il voto, non è un principio riservato necessariamente al solo stato nazionale, ma anche ad entità territoriali inferiori o superiori rispetto a questo, dai comuni alle regioni agli stati membri di una federazione così come ad entità sovranazionali, quali, pur in forme e con caratteristiche molto diverse, l’Unione europea e le Nazioni Unite.

D’altro lato, la condizione generale di crisi in cui versano le attuali democrazie rappresentative nei Paesi avanzati è innegabile. È l’esercizio stesso della sovranità popolare a risultare pregiudicato alla radice là dove il consenso o il dissenso che si esprimono nel voto vengono determinati in modo artefatto da un circuito informativo deviato da interessi particolari e gestito con tecniche di comunicazione abilmente manipolate. Le quali sono spesso fondate sull’efficacia emotiva di dettagli poco rilevanti ma ingigantiti ad arte anziché sui dati e sui fatti reali, che vengono occultati o ridotti ad uno spazio minimo, tale da non venir recepito né sedimentato nella memoria del cittadino. Questo vale non solo per la stampa e per la televisione ma anche per i circuiti apparentemente spontanei e neutrali della rete web. Si tratta di problemi formidabili, nel senso etimologico della parola, che forse solo una futura “costituzionalizzazione” dell’informazione potrà avviare verso esiti positivi, senza raggiungere i quali le democrazie stesse potrebbero soccombere.

L’Unione europea soffre anch’essa, naturalmente, di queste criticità. Ma il deficit di democrazia che viene lamentato ha qui un fondamento specifico, che quasi sempre sfugge agli osservatori. Vi sono due circuiti ben distinti nei quali vengono assunte le decisioni che i Trattati, sottoscritti da ciascun Paese membro dell’Unione, affidano alla competenza dell’Unione stessa.

Il primo circuito è quello che si attua con il metodo comunitario, cioè con l’apporto congiunto e coordinato della Commissione, dei due Consigli (europeo e dei ministri) e del Parlamento europeo. Mentre il Consiglio europeo delibera sempre sulla base del principio del “consenso”, che presuppone l’accordo di tutti, il Consiglio dei ministri delibera nei casi previsti dai Trattati sulla base del principio maggioritario: a maggioranza semplice, assoluta o qualificata a seconda delle materie. Il secondo circuito opera invece per le materie nelle quali i Trattati richiedono decisioni all’unanimità in seno ad entrambi i Consigli, estromettendo dal ruolo decisionale il Parlamento europeo; si tratta di oltre quaranta materie, tutte del massimo rilievo entro le competenze dell’Unione, dall’armonizzazione legislativa alla materia fiscale, dal bilancio pluriennale alla riforma dei trattati, dalla politica estera e di sicurezza alle decisioni del neo-istituito European Stability Mechanism (ESM) e a molte altre, inclusa la revisione dei Trattati.

Appare allora evidente che il deficit democratico dell’Unione ha un fondamento innegabile se si riferisce a questo secondo circuito: come si può ritenere democratica una legge europea o un’importante azione di governo che non abbiano ottenuto l’approvazione dell’organo dell’Unione che rappresenta i cittadini europei, il Parlamento europeo? Solo la doppia legittimazione dell’organo rappresentativo della sovranità popolare e dell’organo che rappresenta gli Stati (i due Consigli) può garantire alle scelte dell’Unione la qualifica della democraticità. Naturalmente, il potere di veto - per il quale è sufficiente il no di un governo per bloccare una decisione - va abolito in radice: là dove esso permane non c’è unione, ma una semplice “lega delle Nazioni”, impotente nei casi di dissenso: come i fatti e soprattutto le omissioni dell’Unione in tutti questi anni hanno dimostrato ripetutamente al di là di ogni ragionevole dubbio.

Invece nel primo dei due circuiti il deficit di democrazia semplicemente non esiste. Vi sono, certo, difetti e imperfezioni, a cominciare dall’assenza di una comune legge elettorale per il Parlamento europeo, che pure i Trattati prevedono; vi è forse una sovra-rappresentazione degli Stati minori, peraltro non irragionevole e comunque non determinante; ed altro ancora. Ma si tratta di inconvenienti non essenziali. Per di più, la svolta realizzata in occasione delle elezioni europee del 2014, che ha visto la presentazione di un candidato da parte di ciascuno dei maggiori partiti europei alla presidenza della Commissione – così è nata la presidenza di Jean-Claude Juncker – ha costituito un’innovazione sostanziale della costituzione materiale dell’Unione, perché ha reso per la prima volta evidente e operante il circuito fondamentale delle moderne democrazie: popolo/voto/parlamento/governo.

C’è però un altro aspetto, non meno essenziale. Democrazia significa anche la capacità di attuare con efficacia le decisioni assunte democraticamente. E qui l’Unione soffre di una patologia grave, perché anche quando una delibera è stata approvata nel modo corretto (cioè con le procedure di quello che abbiamo denominato primo circuito), molto spesso manca poi la capacità di attuarle perché manca un vero governo europeo in grado di imporsi agli Stati nazionali. Si tratta di un difetto di fondo, che scaturisce dal fatto che la Commissione (cioè il governo in potenza dell’Unione) è di fatto spesso impotente.

Restano, anche entro il primo circuito, i problemi che abbiamo sopra richiamato, dei quali soffrono anzitutto le democrazie nazionali, inclusa ormai quella degli Stati Uniti.  Un tentativo di superare i limiti della rappresentanza politica è stato tuttavia inserito nel Trattato di Lisbona con l’articolo 11, che prevede proposte di legge promosse da petizioni di almeno un milione di cittadini: un tentativo parziale e imperfetto, ma non irrilevante.

Come colmare, allora, il deficit democratico dell’Unione? Se i rimedi istituzionali che servirebbero sono pochi, semplici e chiari –  abolizione del veto, co-decisione legislativa generale del Parlamento europeo, fiscalità propria dell’Unione – la speranza di vederli adottati potrà realizzarsi solo se questi rimedi risulteranno indispensabili al conseguimento di risultati di merito che l’Unione deciderà di adottare. Così è stato sempre in passato. Per la sicurezza, per l’immigrazione, per la difesa comune, per la crescita, per l’occupazione, per investimenti su altri beni pubblici europei (dall’energia alla ricerca di base, dalla valorizzazione del patrimonio culturale alla tutela del territorio ed altri ancora) occorre un vero governo dell’Unione, che non potrebbe operare efficacemente e democraticamente se non nel rispetto del metodo comunitario: dunque adottando senza eccezioni i tre requisiti istituzionali di cui si è detto. Questo deve valere anzitutto per i Paesi dell’Eurozona, che non potranno non costituire il nucleo (tutti, non solo alcuni) di quella geometria variabile dell’Unione che ora lo stesso governo tedesco ipotizza.

Le pulsioni negative verso l’Europa, che le opinioni pubbliche stanno oggi esprimendo in misura allarmante, potranno rientrare se, e solo se, l’Unione giungerà in tempi brevi ad attivare, con un adeguato potere di governo democratico sovranazionale, politiche di stimolo alla crescita, all’occupazione anzitutto giovanile ed alla sicurezza comune.

L’alternativa appare ormai chiara: è la progressiva dissoluzione dell’Unione e il ritorno al nazionalismo. Sarebbero esiti funesti per la sicurezza, la pace e il benessere non solo dei cittadini europei ma di quelli dell’intero pianeta.

  

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