Il problema sul quale s’interroga chiunque si renda conto dei rischi che corre oggi il progetto d’integrazione europea e voglia trovare una via per portare tale processo a compimento è come rompere il circolo vizioso creatosi tra l’incapacità dell’Unione europea di risolvere i problemi ai quali è posta di fronte e la sfiducia dei cittadini nelle sue istituzioni.
Nonostante la dimensione chiaramente sovranazionale delle sfide che i paesi europei devono affrontare, le debolezze dell’Unione europea, dovute alla strenua difesa da parte degli Stati membri dei loro poteri, hanno in effetti rafforzato in modo esponenziale l’euroscetticismo e la convinzione che la soluzione a tali problemi risieda in uno smantellamento dell’Unione e in un ritorno alla piena sovranità nazionale. Si tratta di un malessere a tal punto fomentato dalle forze populiste che è divenuto difficile sostenere le ragioni di una maggiore integrazione e che il messaggio che la soluzione dei problemi sta in più Europa e non in meno Europa rischia di essere controproducente.
A tale dilemma cerca di fornire una risposta la Policy Brief dell’ISPI, a firma di Franco Bruni, Sergio Fabbrini e Marcello Messori, dal titolo “Europe 2017: make it or break it?” Il documento si pone in effetti il problema di conciliare riforme di breve periodo, che contribuiscano a ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee e riforme strutturali di medio periodo, che rendano l’Unione europea una vera unione federale. Il documento offre spunti interessanti di riflessione e tocca molti punti oggetto di discussione da tempo tra i federalisti.
L’idea è che nel breve periodo gli sforzi delle istituzioni europee e degli Stati membri debbano concentrarsi sulla produzione collettiva di beni pubblici europei, quali il controllo dell’immigrazione ed alcuni aspetti relativi alla difesa e alla sicurezza, così come il completamento dell’unione bancaria. La produzione di tali beni non richiederebbe una modifica dei trattati. Il controllo dell’immigrazione potrebbe infatti realizzarsi attraverso la creazione di un’intelligence europea e il rafforzamento di Frontex, che trasformi tale Agenzia in un’autorità di controllo delle frontiere europea ed autonoma dagli Stati. La realizzazione di passi avanti in materia di difesa e di sicurezza si potrebbe tradurre nell’utilizzo dell’istituto della cooperazione strutturata permanente per creare un piccolo battaglione europeo che intervenga nelle aree sensibili a livello internazionale. Infine il completamento dell’unione bancaria comporterebbe un intervento del Meccanismo europeo di stabilità volto ad assorbire l’eccesso di titoli di debito pubblico posseduti dalle banche. La realizzazione di simili passi renderebbe evidente, secondo gli autori, l’importanza dell’Unione europea e dell’esistenza di un’area monetaria e, mettendo in luce il legame tra Unione europea e produzione di beni pubblici, contribuirebbe a sconfiggere l’euroscetticismo e a ridare ai cittadini fiducia nell’Europa. Inoltre, la partecipazione alla produzione di tali beni comuni dovrebbe consentire di identificare il gruppo di Stati (presumibilmente l’eurozona) che vogliono procedere sulla via dell’integrazione politica, e dunque porsi nella prospettiva di medio periodo di una riforma dell’Unione.
Lo snodo importante del documento è costituito poi dal legame messo in luce dagli autori tra riforme di breve periodo, risorse dell’Unione e riforma istituzionale della stessa. Anche la realizzazione degli interventi di breve periodo richiede infatti che l’Unione abbia a disposizione un’adeguata quantità di risorse. Lo ristabilimento di un rapporto di fiducia tra cittadini e Unione europea da realizzarsi attraverso le misure di breve periodo assume però senso solo se inserito in un contesto più ampio di riforme strutturali dell’Unione che consentano a quest’ultima di affrontare le sfide alle quali è posta di fronte.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si tratta di un punto toccato rapidamente nel documento, ma in realtà di grande importanza. Se è vero infatti che vi è l’esigenza di fornire risposte rapide a problemi, come quello dell’immigrazione e della sicurezza, sentiti come urgenti dai cittadini, è anche vero che una risposta a tali problemi – anche attraverso gli strumenti esistenti – pone il problema di una maggiore autonomia finanziaria dell’Unione dagli Stati membri, e quindi in ultima analisi esige il compimento di passi nella direzione di una capacità fiscale a livello sovranazionale. Difesa, controllo dell’immigrazione e completamento dell’Unione bancaria non possono essere dunque disgiunte dalla questione delle risorse, che condurrà all’attribuzione di una vera capacità fiscale al livello sovranazionale solo attraverso una profonda riforma dell’Unione.
Tale riforma, secondo gli autori, dovrebbe condurre alla coesistenza di un’Unione federale tra un nucleo di Stati e di un mercato unico che includa anche tutti i paesi che non vogliono far parte dell’Unione federale. E comporterebbe l’identificazione chiara delle politiche gestite e livello nazionale e di quelle gestite a livello europeo, sicché nell’unione federale Stati membri e istituzioni europee sarebbero sovrani ognuno nella propria sfera di competenze. Il modello non sarebbe quello degli Stati federali, quali la Germania, creatisi a partire da uno Stato unitario, bensì quello delle unioni di Stati formatesi per aggregazione di Stati prima indipendenti, quali la Confederazione svizzera. Un modello quindi poco accentrato, nel quale gli Stati membri manterrebbero un ruolo importante. Così, ad esempio, il Ministro delle finanze europeo gestirebbe la politica economica e la capacità fiscale dell’unione federale e sarebbe responsabile di fronte a istituzioni europee democratiche. Tra i suoi compiti non rientrerebbe invece il coordinamento dei Ministri delle finanze degli Stati membri, che agirebbero autonomamente nell’ambito delle loro funzioni e sarebbero responsabili di fronte alle istituzioni democratiche del loro Stato di appartenenza.
Tralasciando il dibattito sul carattere divisibile o meno della sovranità, quel che qui importa sottolineare è che, nel delineare tale modello di unione federale, il documento pone il problema del ruolo degli Stati membri in una futura unione politica. Al di là della necessaria autonomia che l’Unione federale dovrebbe avere nella sfera di sua competenza, è vero in effetti che essa nascerebbe in un contesto di tradizioni nazionali molto radicate. Il ruolo degli Stati membri nell’Unione federale era già stato oggetto di riflessione al momento della redazione del progetto di Comunità politica europea del 1953. Oggi la riflessione va ripresa per delineare un modello di unione politica che sappia garantire l’unità nella diversità.