Si tratta di un Testo che conferma la radicalizzazione delle posizioni del Parlamento che, nelle ultime Risoluzioni, ha insistito sugli effetti disgreganti e iniqui, non coerenti con i valori e gli obiettivi dei Trattati, delle politiche di austerity imposte grazie al quadro della governance intergovernativa, segnatamente per i paesi aderenti all’euro. Indubbiamente dietro queste prese di posizione vi è anche la protesta per l’obiettiva sottrazione di poteri decisionali nella complessiva gestione della crisi dell’euro. Infatti, occorre ricordare che: a) per le operazioni di salvataggio e le collegate misure di contenimento dei deficit è competente il Mes o Fondo Salva-Stati (istituito da un Trattato internazionale) che deve solo tenere informato il Parlamento; b) la sorveglianza macroeconomica (che monitora soprattutto le spese sociali segnatamente nei paesi più indebitati), rafforzata con il Six Pack, il Two pact e il Fiscal compact, è nelle mani della Commissione e del Consiglio; c) sulla legislazione sovranazionale il Parlamento vanta un pieno potere di codecisione, ma la sua voce diventa assai flebile allorché le spese di natura sociale sono esaminate alla luce della prioritaria esigenza della stabilità monetaria.

La Risoluzione è molto lunga e complessa e dà espressione non edulcorata delle «crescenti frustrazioni e preoccupazioni di molte persone riguardo alle prospettive di vita incerte, alla disoccupazione, alle disuguaglianza crescenti ed alla mancanza di opportunità, in particolare per i giovani» (considerando  A). Si cerca, così, di aprire varchi per un’Europa sociale nella volontà di dare finalmente concretezza ed effettività alle disposizioni della Carta dei diritti, che rappresenta un Higher law che riassume le tutele essenziali derivanti dal (migliore) patrimonio costituzionale dei Paesi membri.

Il Testo, però, ha una sua particolare “politicità” in quanto si inserisce  in un contesto specifico ed in una procedura non conclusa. Dopo l’ultimo Discorso sullo Stato dell’Unione (cfr. nr. 5/2016 de L’Unità Europea) il Presidente J.C. Juncker ha promesso la costruzione di un social pillar dell’Unione e ha lanciato una consultazione ad ampio raggio, che si è conclusa il 31 dicembre del 2016. Nella call della consultazione si mantiene un’ambiguità di fondo sul fatto se il futuro social pillar debba consistere in un mero restatement dell’attuale catalogo dei diritti sociali che hanno già una regolazione sovranazionale e/o in un rafforzamento dei meccanismi di protezione nazionale, valorizzando il loro coordinamento europeo, o invece se la prospettiva è quella di creare nuovi pezzi del “pilastro” con regole e, in parte, risorse dell’Unione.

Ora entra in campo il P.E. che, con questa dura protesta contro lo stato di cose presenti e con la richiesta di interventi  energici sui temi sociali, sembra volere metter i piedi nel piatto chiedendo che le future iniziative della C.E. non siano vuote ed evanescenti come nel passato.

Ci sembra che vadano segnalati soprattutto tre punti di merito della  Risoluzione che suonano critiche nei confronti del passato.

  1. Viene rilanciata l’idea che per le forme di occupazioni precarie o “atipiche” (sembra di capire di lavoro subordinato) che sono in crescita numerica vada realizzato e garantito un «nucleo di diritti azionabili, indipendentemente dal tipo di contratto o rapporto di lavoro tra cui parità di trattamento, tutela della salute e sicurezza, protezione delle maternità, disposizioni in materia di orario e periodi di riposo, accesso alla formazione, diritti di informazione e consultazione, libertà sindacali etc.» (punto n. 4). Il P.E. è molto coraggioso su questo punto perché invita all’adozione di una “direttiva quadro” e quindi si apre ad una regolazione ulteriore dell’Unione in una materia così spinosa.
  1. Per quanto riguarda la sharing economy [1] (570 miliardi di fatturato in U.E.) il P.E. chiede che si voglia distinguere più chiaramente se coloro che operano sulle piattaforme digitali siano riconducibili o meno agli schemi del rapporto di lavoro subordinato [2] e invita ad introdurre norme di trasparenza a carico delle piattaforme che riguardano le condizioni di lavoro, le condizioni di responsabilità delle stesse, gli obblighi dei prestatori e via dicendo. Molto forte è l’affermazione per cui anche «gli autentici lavoratori autonomi che operano attraverso le piattaforme online...devono essere protetti mediante la partecipazione a regimi di assicurazione sanitaria e di sicurezza sociale» (punto n. 22). Netta è l’opzione per l’adozione di soglie retributive sotto forme di salari minimi nazionali, oggi impedita in Italia, dall’incomprensibile ed antistorico ostruzionismo della CGIL (punto n. 6). Sarà bene ricordare che 21 paesi su 28 hanno un salario minimo legale che costituisce anche una politica ufficiale ILO.
  1. Un ruolo di indubitabile centralità nella Risoluzione lo gioca il Reddito Minimo Garantito (RMG, chiamato anche reddito di base) come strumento di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, ma più generale come strumento di piena e libera partecipazione dell’individuo alla realtà sociale e produttiva cui appartiene. Ne riportiamo il passaggio più incisivo (punto n. 15) nel quale il P.E. dubita dell’idoneità di tanti sistemi nazionali nell’offrire forme credibili di RMG: «mette in evidenza l'importanza di regimi adeguati di reddito minimo per preservare la dignità umana e lottare contro la povertà e l'esclusione sociale, così come il loro ruolo, quale forma di investimento sociale che consente alle persone di partecipare alla società e intraprendere percorsi di formazione e/o la ricerca di un lavoro; invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell'Unione europea, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze; invita la Commissione e gli Stati membri a valutare su tale base le modalità e gli strumenti per fornire redditi minimi adeguati in tutti gli Stati membri e a esaminare i possibili interventi successivi a sostegno della convergenza sociale nell'Unione…». Insomma non c’è possibile convergenza tra Stati (come l’Italia) per i quali è ammissibile una vita “indegna” (oltre il 26% della famiglie italiane a rischio di esclusione sociale) con quei Paesi che consentono a tutti un’opportunità di scelta e di partecipazione attiva alla realtà “sociale, culturale e democratica” nella quale vivono, per richiamare un passaggio famoso della sentenza del 2 febbraio 2010 del Tribunale costituzionale tedesco sul RMG. Sul piano comparativo sono 26 su 28 i paesi che hanno un RMG salvo Italia e Grecia anche se quest’ultima sta approvando una misura del genere.

Sembrerebbe così descriversi uno scenario per cui il futuro social pillar, potrebbe articolarsi su tre grandi nodi: tutela della dignità delle persone (RMG), tutela del lavoro decente (salario minimo legale), assicurazione comune contro la disoccupazione, come richiesto dalla nostra petizione Un governo federale per un New Deal europeo e dalla proposta dal Governo Italiano (cfr. nr.5/2015 de L’Unità Europea)

Certamente, il vero salto in avanti sarebbe rendere queste proposte norme  sovranazionali e che l’Unione potesse disporre di proprie risorse. Solo così potrà nascere una vera solidarietà paneuropea superando l’attuale schema per cui l’Unione si limita a stigmatizzare ed ad imporre obblighi e regole agli Stati ma (salvo i fondi di coesione veramente troppo esili), non interviene mai direttamente con un sostegno economico. Sarebbe già importante comunque che queste proposte diventassero direttive e regolamenti perché costituirebbero un obbligo sovranazionale. In ogni caso la prospettiva individuata da un battagliero P.E. non avrà nessun successo, neppure parziale, se l’opinione pubblica europea non la sosterrà e rimarrà ferma, come sembra sia incline a fare il sindacato europeo, nel difendere i welfare ed i sistemi lavoristici nazionali, che rischiano di essere sfigurati dal nazionalismo e dalla xenofobia, rifiutando la sfida della costruzione autentica di un modello sociale condiviso, di cui la Risoluzione già individua i tratti salienti.


[1] “È un sistema economico in cui beni o servizi sono condivisi tra individui privati, gratis o a pagamento, attraverso Internet. (Oxforf Dictionary) (ndr)

[2] Ad esempio non sarebbe ammissibile che ogni Corte nazionale decida secondo criteri interni se gli autisti di Uber sono dipendenti o meno (recentemente un Tribunale britannico  li ha ritenuti employee e non drivers) visto che il mercato europeo  è unico.

  

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