I risultati delle recenti elezioni aprono una nuova fase per il Regno  Unito, ma non migliorano la situazione politica. La lettura del voto non è semplice, specialmente dal punto di vista europeo, ma offre lo spunto per qualche riflessione.

Iniziamo dal dato più importante, quello riguardante il risultato dei due primi partiti. Il Labour guidato da Jeremy Corbyn ha fatto un notevole balzo in avanti e, contro le aspettative iniziali, ha guadagnato voti e seggi sul partito di governo. I conservatori, che avevano chiamato il voto per affermarsi con una più ampia maggioranza e per incassare consensi come trampolino di lancio verso i negoziati di Brexit, hanno perso i pochi seggi che garantivano loro una maggioranza assoluta già risicata (passando da 331 a 318).

Corbyn ha saputo convincere molti elettori che il governo May avrebbe implicato la riduzione delle tutele sociali e che solo la linea laburista avrebbe potuto salvare le classi più disagiate. Theresa May, personalizzando il voto con un messaggio semplice "votate per me, perché il mio governo sia forte e stabile", non è riuscita a fare altrettanto.

Va però ricordato che questa è la prima elezione in cui Theresa May si presenta, poiché finora governava con i consensi raccolti da Cameron e dai conservatori del Remain. In mezzo c'è stato il più dirompente evento politico degli ultimi 20 anni, quindi stiamo attenti a fare raffronti con i numeri della scorsa tornata elettorale. Il partito che si è presentato a queste elezioni è molto diverso dal partito che aveva ottenuto la maggioranza alle passate elezioni. Dire che i Tories hanno subito una battuta d'arresto, quindi, è improprio. Diciamo piuttosto che i vecchi Tories del compromesso con l'UE e pro-Remain avevano la maggioranza, i nuovi Tories dell'hard Brexit non ce l'hanno, ma restano il primo partito. Inoltre, alla conta dei voti la May "hard brexiter" ha preso il 5,5% in più del Cameron "remainer" (dal 36.8% al 42.4%), un guadagno sostanzioso, anche in valore assoluto.

Nei "nuovi Tories" dell'hard Brexit saranno di certo finiti molti voti dell'UKIP, partito che dopo aver raggiunto il proprio obiettivo al referendum di un anno fa, ha sostanzialmente messo in liquidazione l'attività (è passato dal 12,6% di voti all'1,8%, perdendo l'unico seggio che aveva ottenuto in Parlamento e pagando una forte dispersione del voto sul territorio). Ma se guardiamo bene, la vittoria dell'UKIP è ormai un risultato acquisito, perché la loro linea ora è portata avanti dal primo partito del paese.

Per altro verso, Corbyn non ha mai messo in discussione la Brexit, anzi ha sostanzialmente votato l'hard Brexit proposta da Theresa May, conferendo una delega in bianco a un Governo notoriamente "hard Brexiter" per la conduzione dei negoziati. Il risultato vero è che oggi oltre gli elettori britannici che hanno votato Tories, Labour, UKIP e altre sigle brexiters (ossia oltre l'80%) sono favorevoli alla Brexit, o comunque la danno come un dato di fatto irreversibile, per cui non vale più la pena di lottare. L'unico partito che ha messo in discussione la Brexit, proponendo un referendum sugli esiti del negoziato, sono i LibDem, che hanno perso qualche voto e guadagnato qualche seggio rispetto alle scorse elezioni, ma che resteranno del tutto ininfluenti con i loro 12 seggi.

La prima conseguenza che dobbiamo trarre è quindi che non esiste in Regno Unito una massa critica che vorrebbe tornare indietro sul divorzio dall'UE. Anzi, molte persone inizialmente in disaccordo hanno accettato la cosa e non credono sia possibile o desiderabile rimetterla in discussione. Manca però una visione concreta su come la Brexit sarà fatta.

Il secondo effetto da notare è infatti che il voto ha indebolito fortemente il governo, che sembra avrà una maggioranza solo grazie ai voti degli unionisti irlandesi. Una situazione delicata, se pensiamo che la May arriva ai negoziati su Brexit più debole di prima, e ci arriva così per una sua scelta: ha fatto una scommessa rischiosa, cercando di capitalizzare un consenso che non era certa di avere. In termini finanziari si direbbe “operazione allo scoperto”, un Big Short. Nello scombussolamento della Brexit, ha guadagnato voti ma perso seggi. L'esito delle elezioni approfondisce quindi il solco tra il Regno Unito e l'UE, ma contemporaneamente indebolisce il governo che dovrà negoziare il divorzio. Il nuovo crollo verticale della sterlina (il terzo dal giorno del referendum) è verosimilmente collegato alla sfiducia dei mercati in un buon accordo per il Regno Unito con l'Europa.

I risultati elettorali non sono una buona notizia per chi vuole l'hard Brexit, ma neppure per l'Unione, che avrà di fronte una controparte soggetta a ricatti, con uno scarso supporto interno e quindi poco affidabile.  Il caos che regna in UK è confermato da un evento piuttosto raro nella vita politica del Regno: l'annullamento del Queen's Speech del 2018. Il governo ha infatti presentato il 21 giugno il proprio programma, su un orizzonte temporale biennale, cosa piuttosto eccezionale considerata la tradizionale programmazione annuale. La regina Elisabetta II, per l'occasione, si è presentata con un completo blu e un cappellino con alcuni fiori gialli, quasi a rappresentare una bandiera dell'Unione. E sappiamo che non esistono coincidenze in politica.

Il Queen's Speech 2017 ha affrontato come priorità assoluta per il governo di Sua Maestà la conduzione dei negoziati per la Brexit. I termini utilizzati sono piuttosto vaghi, frutto dell'incertezza in cui naviga il Primo Ministro, che ha dovuto addirittura rinviare di qualche giorno l'appuntamento con la Corona in attesa di capire se sarebbe stata in grado di formare un governo. Lo scopo sarà quello di assicurare il best possible deal, lavorando per garantire all'accordo il widest possible consensus da parte di tutti gli attori della società. L'unica indicazione specifica consiste nell'annuncio della cancellazione del European Communities Act, ossia l'atto legislativo mediante il quale il diritto europeo veniva riversato nell'ordinamento britannico.

Se la situazione del governo non è buona, non stanno meglio i Remainers britannici, completamente abbandonati dai laburisti, e gli indipendentisti scozzesi, che perdono voti e un terzo dei propri seggi. Gli stessi laburisti, che sul capitolo Brexit non rappresentano comunque un'alternativa rispetto a Theresa May, guadagnano molti voti (+10%) e qualche seggio, ma al contempo rischiano di restare esclusi dal governo del paese per altri cinque anni se il governo May riuscirà a sopravvivere con i numeri a disposizione.

Esistono giochi a somma zero e giochi a somma positiva. Nel Regno Unito si sta inscenando un pericoloso gioco in cui tutti perdono, e in cui i suicidi politici iniziano a diventare un po' troppo di moda.

Se consideriamo i contraccolpi previsti sull'economia inglese, le spinte autonomiste e la gestione dei nuovi confini esterni, l'Unione dovrà muoversi in maniera coesa e responsabile di fronte a uno scenario che potrebbe degenerare rapidamente. E potrà farlo solo con un vero governo economico della zona Euro e con una voce unica in politica estera. È questa la condizione perché il negoziato proceda lungo binari chiari e dall’esito altrettanto chiaro: che sia hard oppure soft Brexit.

  

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