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La chicca è nell’ultimo capitolo, che fa giustizia di uno dei luoghi comuni più triti, la gigantesca burocrazia europea e la sua ansia compulsiva alla regolamentazione. Beh, “la 34^ falsa verità” di Lorenzo Bini Smaghi (esplicito riferimento al volume precedente “33 false verità sull’Europa”) è che alla fin fine il numero dei funzionari della Commissione Europea è inferiore a quello del Comune di Roma e che l’oggetto di facili ironie come la disciplina delle dimensioni delle arselle o dei cetrioli non è farina del sacco della burocrazia europea. Nella regolamentazione dei prodotti alimentari, peraltro necessaria per tutelare consumatori e buone regole di concorrenza, intervengono pesantemente gli stati nazionali che spingono per meglio tutelare i propri prodotti. E se le dimensioni dei cetrioli occupano cinque pagine della normativa europea, sul medesimo argomento il Congresso americano argomenta per quattordici pagine.

La tentazione di andarsene ” di Lorenzo Bini Smaghi (Il Mulino, 2017) è il terzo volume di una trilogia dedicata all’Europa, alle sue incompiutezze istituzionali e, soprattutto, a fare giustizia delle false credenze e pregiudizi sull’Unione. Meglio resistere alla tentazione di andarsene, argomenta l’ex banchiere centrale, perché si tratta di una soluzione suggestiva ma semplificatoria, un’illusione fuorviante che distoglie l’attenzione dalle vere cause del ritardo europeo nei confronti degli Stati Uniti e, in particolare, del ritardo del nostro Paese nei confronti delle performance economiche medie del resto dell’Eurozona.
Se è vero che un’immagine vale più di mille parole, Bini Smaghi fa parlare le immagini.
E’ come entrare in una mostra di arti figurative: di ogni grandezza economica è  presentato per prima cosa l’andamento grafico, segue il commento e il raffronto con gli Stati Uniti. La crescita del PIL, il tasso di risparmio e d’investimento, le esportazioni, i tassi monetari, la produttività: le varie grandezze dell’economia europea vengono presentate nella scarna nudità dei numeri, confrontate con quelle americane e quindi tra i principali paesi dell’area euro.
Nel percorrer le stanze di questa speciale “esibizione economico-figurativa”, si scopre che l’economia americana riprendeva il sentiero della crescita due anni dopo la crisi mentre l’Europa, impigliata nelle sue contraddizioni, cadeva in una triple-dip recession, una caduta del reddito dei suoi cittadini ripetuta per tre volte. L’Europa ha tante mancanze, è ancora lontana dall’avere le caratteristiche di “area valutaria ottimale” per dirla con il premio Nobel Robert Mundell, ma il ritardo delle performance economiche del Vecchio Continente non è dovuto all’austerità né tantomeno alla moneta unica.
Con dovizia di dati statistici e solidi argomenti, l’analisi di Bini Smaghi rivela che dietro la semplificazione, e la tentazione, di attribuire tutte le responsabilità alla Commissione Europea e alla Banca Centrale, ci sono due più complesse cause originarie, e le responsabilità sono da individuarsi nelle pulsioni degli stati nazionali.
La prima causa del ritardo è “l’incompiutezza dell’assetto istituzionale europeo, che non ha permesso di mettere in atto politiche incisive come quelle oltre Atlantico”. Le performance economiche tra le due sponde dell’Atlantico cominciano a divergere in modo significativo nel 2011, l’anno della crisi del debito sovrano europeo. In quei drammatici mesi vennero in superficie rischi fino a quel momento sottovalutati, la duplice possibilità di ristrutturazione del debito pubblico (la Grecia fu il primo caso di taglio del valore nominale del debito di un paese avanzato nel secondo dopoguerra) e l’uscita dalla moneta unica.

La seconda causa del ritardo europeo “risiede nelle divergenze tra i vari paesi, all’interno del sistema europeo, che non si sono del tutto ridotte negli anni recenti”. Le grandezze commentate da Bini Smaghi sono le medie dell’Eurozona, formate da paesi con performance brillanti e altri che faticano ad agganciare il treno della ripresa globale. Un aspetto riguarda anche il nostro Paese e spiega il sottotitolo del libro, “fuori dall’Europa c’è un futuro per l’Italia?”.
Non crediamo di fare uno “spoiler” del libro anticipando la risposta di Bini Smaghi. Tra il 2014 e il 2016 l’Italia è cresciuta di circa lo 0,6% all’anno mentre l’area dell’euro segnava nello stesso periodo una crescita media di 1,6%. Un differenziale di crescita di circa tre punti percentuali che hanno fatto dell’Italia il fanalino di coda dell’Eurozona, nonostante la stessa moneta e medesimi vincoli normativi. La crisi italiana è in gran parte un fenomeno italiano, Bini Smaghi parla esplicitamente di dissonanza cognitiva che tende ad addebitare all’Europa responsabilità che sono in realtà all’interno dei nostri confini nazionali. “Sebbene i principali istituti di ricerca concordino sui fattori che frenano l’attività economica, come il contesto amministrativo, burocratico,  giuridico diventati più opprimenti, la scarsa concorrenza, la corruzione dilagante, l’arretratezza della pubblica istruzione, il ritardo degli investimenti pubblici, l’ingolfamento del sistema bancario, la dimensione troppo piccola delle imprese… la difficoltà di riformare diventa un alibi per accettare l’immobilismo”.
All’Italia è dedicato il capitolo sulla produttività, scesa nel nostro Paese dello 0,3% annuo tra il 2011 e il 2016 a fronte di un aumento dello 0,4% annuo nell’Eurozona. Non ci sono alibi europei, “se non aumenta la produttività, non cresce neppure l’economia, non c’entrano né il cambio dell’euro né le politiche di austerità fiscale”. Una delle cause della nostra debolezza è (anche) un sistema di imprese polverizzato in migliaia di micro aziende, “piccolo non è più bello”, le imprese familiari o con pochi addetti non sono nella miglior condizione di prendere vantaggio dei progressi tecnologici e digitali.
Le imprese medio-piccole non sono inoltre attrezzate per gli investimenti in ricerca e sviluppo, “decisivi per le dinamiche della produttività”, le barriere alla concorrenza restano elevate “soprattutto nel settore dei servizi, dove tendono a consolidarsi posizioni di rendita che non favoriscono innovazione e produttività”. Insomma, conclude Bini Smaghi, “il risultato è sotto gli occhi di tutti (quelli che non si bendano gli occhi)”.
Fatta la diagnosi, Bini Smaghi propone la terapia. Se le ragioni del ritardo europeo sono nell’incompiutezza del disegno istituzionale e nelle divergenze all’interno di un’area tutt’altro che omogenea, allora “da un lato si deve continuare sulla strada del rafforzamento istituzionale dell’unione, dall’altro si devono ridurre le divergenze tra i vari paesi con azioni di politica economica nazionali e europee”. In sintesi, si tratta di “rafforzare la capacità di assorbire e condividere i rischi (risk sharing) e di favorire una convergenza di questi rischi verso una loro riduzione (risk reduction)”.
Dirlo non é come farlo, non sempre diagnosi e terapia trovano il paziente disponibile e collaborativo. Il trasferimento di poteri a un organismo sovranazionale comporta graduali cessioni di sovranità, dunque procedure democratiche e, soprattutto, buone dosi di fiducia reciproca oggi ancora lontanissima. La tentazione di andarsene resta fortissima “anche se poi ci si accorge che da soli, senza l’aiuto e la collaborazione con gli altri, non si va molto lontano”. C’è ancora molto da fare per gli europeisti e i federalisti.

  

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