Il tema dell’immigrazione, con l’impennata recente degli sbarchi sulle coste italiane, occupa le cronache quotidiane, determina reazioni politico-sociali di rigetto che mettono in discussione i nostri valori democratici e alimenta crescenti frizioni tra paesi membri dell’UE con pregiudizio del processo di costruzione europea. Di qui la necessità di fare chiarezza, anche se necessariamente in modo schematico.

  1. Come da dichiarazioni del presidente Gentiloni, l’85% dei migranti sono “migranti economici” alla ricerca di occupazione e di migliori condizioni di vita. La quota rimanente è occupata da “migranti forzati” (profughi) che fuggono da dittature spietate (Eritrea) o dal terrorismo (Mali, Niger, Nigeria).
    La distinzione tra profughi e migranti economici è dirimente. Per gli ingressi irregolari di cittadini extracomunitari nell’UE si applica la Convenzione di Ginevra del 1951, integrata dal Protocollo del 1967, che impegna i paesi firmatari a certificare lo status di rifugiato e a prestare la dovuta protezione internazionale solo su basi individuali di riconoscimento (pericolo di vita, minacce alla libertà personale nel paese di provenienza,...). Tale regime è completato dal Regolamenti di Dublino III del 2013 che impone al paese di primo approdo di realizzare il riconoscimento e di prestare l’assistenza ai profughi. E’ negata poi al rifugiato la possibilità di trasferimento in altro paese UE.
    I migranti economici invece, dopo il riconoscimento, andrebbero rimpatriati in presenza di accordi con il paese di origine. Inoltre, nella quasi totalità dei casi, i migranti risultano sprovvisti di documenti, il che rende lunghe e complesse le operazioni di riconoscimento che in Italia avvengono nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), in un regime di detenzione amministrativa che non può superare i 18 mesi. Va aggiunto che molti migranti riescono a sottrarsi al regime di internamento provvisorio e tentano di raggiungere clandestinamente altri paesi con maggiori prospettive di accoglienza determinando in tal modo la reazione dei partner europei.

  2. Innanzitutto, non siamo di fronte a un’emergenza, come sostengono in Italia le fonti governative e i mezzi di informazione. Una reale emergenza, risolta da Berlino, era, invece, il milione di profughi approdati sulle isole greche e che risalivano la penisola balcanica nel 2015. Secondo dati Unhcr, tra il 1 gennaio e il 31 luglio 2017, sono sbarcati in Italia 95.074 migranti. In altre parole poco più dei 781 arrivi dello stesso periodo 2016 (https://www.lenius.it/migranti-2017 ). Quindi, nel caso degli approdi in Italia provenienti dall’Africa (rotta del Mediterraneo centrale), siamo in verità di fronte a una modesta dilatazione stagionale di un fenomeno che si manifesta da anni, come mostrano gli accordi storici sia dei governi Berlusconi, sia dei governi Prodi, con il premier libico Gheddafi per la limitazione delle partenze dalla Libia, tradizionale paese di convergenza e di transito delle rotte migratorie africane verso l’Europa. Allo stesso tempo, non costituisce una novità la crisi umanitaria irrisolta determinata dai centri di detenzione in Libia, dal traffico di migranti organizzato da reti criminali e dall’elevato numero di naufraghi annegati.
    Gli sbarchi sulle coste italiane esprimono, in realtà, un fenomeno strutturale dovuto alla cattiva distribuzione del potere e della ricchezza in Europa e in Africa a cui nessuno pone rimedio.
    I flussi migratori provengono per la quasi totalità (anche per ragioni di prossimità geografica) dalla fascia sub sahariana del Sahel. Il Sahel è la vasta regione dell’Africa che sconta cambiamenti climatici, siccità, assetti politici fragili, ancora dominati da ex potenze coloniali (Francia soprattutto, Gran Bretagna, Italia), infiltrazioni di movimenti fondamentalisti islamisti e terrorismo. Quest’anno sembra che si sia aggiunta una forte componente migratoria proveniente dal Bangladesh (https://www.lenius.it/migranti-2017).

  3. Questo assetto, che incide sulle scelte nazionali dei paesi UE, sulla gestione degli Accordi di Schengen, sui comportamenti della Commissione e delle altre istituzioni europee, è il derivato del Titolo V, Capo 2° “Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione” del Trattato sul funzionamento dell’UE (Lisbona). Inoltre, la competenza dell’UE su tutta la materia è di natura “concorrente”, per cui è condivisa con gli Stati membri. Ne conseguono, di fatto, poteri limitati per l’asilo e l’immigrazione da parte della Commissione europea, sebbene nel processo decisionale sia prevista la procedura legislativa ordinaria (fondata sul voto a maggioranza del Consiglio e del Parlamento europeo: metodo comunitario). In realtà, a seguito dei Regolamenti di Dublino e dell’art. 79.5 del TFUE (Diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini degli Stati terzi in cerca di occupazione), il detto processo decisionale finisce col rientrare nella sfera dei rapporti intergovernativi, anziché comunitari, regolati dal diritto di veto.

  4. Su tutto il capitolo immigrazione, vanno denunciate le responsabilità nazionali, comunitarie e intergovernative europee.
    Oggettivamente impossibilitata a risolvere da sola i problemi dell’Africa, l’Italia è responsabile per non avere previsto per tempo l’incremento recente degli arrivi in provenienza dalla Libia, data la stagione estiva, e di non essersi attrezzata per l’accoglienza. Inoltre, il Ministero degli Interni ha assunto posizioni poco comprensibili rispetto agli impegni già sollecitati e assunti in sede UE. In realtà, in questi ultimi anni per evitare i tragici naufragi avvenuti nell’attraversamento del Mediterraneo, l’Italia ha prima realizzato l’operazione “Mare Nostrum”nell’ottobre 2013, poi dal novembre 2014 ha concordato con altri paesi UE la missione “Triton”. Gli accordi “Triton” prevedono il comando operativo dell’Italia nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare e lo sbarco obbligatorio nei porti italiani dei migranti salvati in mare da navi militari o delle ONG anche se battenti bandiera di paese diverso dall’Italia. Pertanto le richieste del governo appaiono dirette ad avere maggiore condivisione nell’accoglienza dei profughi da parte dei partner europei e decisamente strumentali, sul piano interno, in vista delle prossime elezioni politiche.
    La Commissione europea, a sua volta, rimane prigioniera dei suoi poteri limitati. Può solo elargire qualche aiuto finanziario all’Italia per la gestione dell’operazione “Triton” (accoglienza dei rifugiati e rimpatrio, quando possibile, dei migranti economici). I limiti del metodo comunitario sono emersi con il piano di distribuzione europea dei profughi in arrivo in Italia e in Grecia proposto dalla Commissione nel 2015, approvato prima con il voto a maggioranza del Consiglio e poi ostacolato nell’applicazione da parte di tutti i paesi chiamati all’accoglienza, in particolare da parte dei paesi dell’Europa centro-orientale. D’altra parte l’accoglienza dei rifugiati ha il suo costo economico e sociale e molti governi non intendono esporsi alle reazioni domestiche generate anche da fattori di diffidenza popolare verso culture e religioni non autoctone.
    Queste considerazioni fanno ritenere ottimistici i risultati del vertice di Parigi del 27 agosto scorso tra Francia, Germania, Italia, Spagna e Chad, Libia, Niger. La strada rimane in salita, a partire dalle dichiarazioni della Cancelliera Merkel sulla dovuta revisione del Regolamento di Dublino. Il vertice ha delineato la possibilità di costituire in Libia dei centri di ricollocazione, sotto controllo dell’Unhcr, per la selezione dei rifugiati da accogliere in Europa e il rimpatrio nei paesi di origine dei migranti economici. L’obiettivo immediato è quello voluto dall’Italia di bloccare gli sbarchi, mentre è rimasto inascoltato l’appello del Chad sull’urgenza dell’aiuto allo sviluppo per limitare i movimenti migratori dall’Africa.
    A fronte delle discutibili posizioni italiane e delle insufficienze sia del metodo comunitario sia di quello intergovernativo, il tema dell’immigrazione rischia di finire in un vicolo cieco e alimentare in tal modo ulteriori chiusure nazional-populiste ed euroscettiche. Le forze politiche democratiche e la società civile europea, se vogliono salvare i valori democratici e di solidarietà che sono alla base del processo europeo, non hanno alternative, a questo punto. Sono chiamate alla mobilitazione per la riforma dei trattati, per la costruzione di un’effettiva federazione europea, dotata di efficaci strumenti di governo per la sicurezza e lo sviluppo in Europa e per le sue proiezioni sul continente africano.

  

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