Non c'è bisogno di scomodare Schopenhauer per ammonire che le grandi illusioni sono spesso seguite da grandi delusioni. La vittoria di Macron in Francia è stata salutata dall'establishment europeo ed anche dai federalisti come una vittoria dell'Europa. Tale è stata, ma giova aggiungere qualche chiosa. L'affermazione del giovane Presidente è stata importante soprattutto perché ha impedito la vittoria del Front National ed è avvenuta in una campagna elettorale in cui è emersa in modo chiaro l'alternativa formulata a Ventotene. Aspettarsi invece che il candidato più europeista giunto alla presidenza della République diventi il federatore dell'Europa finirebbe probabilmente per dar ragione ancora una volta al filosofo di Danzica. Per tre buoni motivi.
Il primo e più evidente è che tutti i leader nazionali rispondono al loro elettorato e sono vincolati dalla ragion di Stato. Per dirla con un connazionale del Nostro, il Duca di Rohan, “i principi governano i popoli, ma gli interessi governano i principi.” Le prime mosse in tema d’immigrazione, di politica estera e di politica industriale dimostrano che il nuovo inquilino del'Eliseo non fa certo eccezione. In secondo luogo, come si è già scritto su queste pagine, quando i governi, anche quelli più illuminati, perseguono qualche forma di integrazione, sono tentati di seguire i dolci declivi del metodo intergovernativo piuttosto che affrontare l'erta salita della rinuncia alla sovranità nazionale. C'è una terza ragione, più specifica ma forse non meno rilevante. In Francia, nonostante i Pétain ed i Papon, il nazionalismo non è giunto alle perversioni a cui l'hanno condotto il fascismo in Italia ed il nazismo in Germania. Ha dunque ancora una forte legittimazione e non è solo appannaggio dell'estrema destra. Il caso di Mélenchon e del sovranismo di sinistra è lì a ricordarcelo. La conseguenza è che un qualche limitato successo del riformismo nazionale può generare ancora l'illusione che la Francia possa farcela da sola. Insomma, la vittoria di Macron ci offre un'ottima occasione per batterci, ma non ci dà alcuna garanzia sul successo finale.
L'alleata più preziosa dei federalisti resta in questa fase quella che gli antichi Greci chiamavano la dea Ananke, signora degli dei e degli uomini. La necessità storica ha oggi due dimensioni, una esterna ed una interna. Il primato della politica estera, e quindi della sicurezza, si manifesta con un’urgenza che era difficile ipotizzare fino a qualche anno fa. La crisi dell'egemonia americana si poteva già scorgere nei fallimenti di Bush Junior. La presidenza Trump l'ha resa però così evidente da lasciare attoniti non solo alleati e nemici, ma l'intera classe dirigente americana: parlamentari, giudici, opinionisti, uomini d'affari, persino gli esponenti della stessa Amministrazione, trattati come birilli nelle mani di un dio capriccioso.
In questa situazione il focolaio più pericoloso per la pace mondiale è sicuramente l'Estremo Oriente, con la minaccia rappresentata dalla Corea del Nord. Tuttavia, in quel contesto un accordo tra le grandi potenze per tenere sotto controllo questo Stato resta possibile, come dimostrano le sanzioni, imposte questa volta anche dalla Cina. Ben diverso è il caso degli Stati e dei territori dell'Africa e del Medio Oriente. Con il poderoso sviluppo di gran parte dell'Asia e con l'autosufficienza energetica raggiunta dagli USA, queste regioni sono divenute molto meno strategiche per l'alleato americano e sono in preda ad una crescente anarchia. Gli effetti sull'Europa sono sotto gli occhi di tutti. Non basterà certo un po' di collaborazione intergovernativa per risolvere problemi come gli squilibri demografici ed economici tra le sponde del Mediterraneo, l'immigrazione, il terrorismo, gli Stati falliti, i conflitti etnici e religiosi. La cooperazione strutturata permanente è sicuramente un passo nella giusta direzione, ma solo un governo europeo legittimato democraticamente e dotato delle risorse umane e materiali necessarie può avviare a soluzione problemi epocali di quella portata.
Dopo le elezioni svoltesi in Austria, Paesi Bassi e Francia il fronte interno è oggi meno pericoloso. Per di più la ripresa economica va irrobustendosi e allargandosi a tutti i Paesi. Sarebbe però un errore sottovalutare il fuoco che cova ancora sotto le ceneri e ritenere che gli scampati pericoli ci assicurino una navigazione tranquilla anche per i prossimi anni. Persino i governi più avveduti non considerano più un tabù mettere mano ai Trattati. L'orizzonte è quello delle elezioni europee del 2019, ma il cantiere si aprirà probabilmente dopo le ormai imminenti elezioni tedesche. A meno d’improbabili sorprese nell'esito di queste, l'asse franco-tedesco comincerà ad avanzare le sue proposte per il governo del'Eurozona e per dotare l'Europa di una autonoma capacità nei settori della sicurezza e della politica estera. A quel punto la partita sarà aperta, ma l'esito sarà ben lungi dall'essere scontato.
Non tanto per l'incertezza se procedere a 27 o coinvolgere solo i Paesi che lo vorranno. Dopo Brexit e le divisioni che hanno segnato la recente storia europea, quella si può ritenere una questione in larga parte superata. Le soluzioni intergovernative imposte in questi anni per rispondere alla mancanza di un'unione fiscale ed economica devono invece farci temere che quella sia di nuovo la strada imboccata. Occorre uno schieramento di forze per aprire una fase davvero costituente e per condurla all'esito più vicino a quello da noi desiderato. Come ha dimostrato il successo della Marcia per l'Europa, il lavoro compiuto in questi ultimi anni ha creato un primo fronte di forze schierate secondo la logica di Ventotene. Per vincere le future battaglie occorre rafforzare ed allargare quello schieramento. E' il lavoro che ci aspetta in Europa nei prossimi due anni.
C'è però un impegno specifico che attende i federalisti italiani e che riguarda il nostro Paese. Scongiurato ormai il rischio di elezioni anticipate in autunno, il Governo ha il compito gravoso di far approvare una manovra finanziaria che non ceda alle lusinghe del facile consenso elettorale ed anzi contenga delle misure di risanamento finanziario, perché senza un chiaro percorso di riduzione del debito pubblico l'Italia non può avere alcuna credibilità in Europa. Subito dopo si aprirà la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento. Si può star certi che le forze nazionaliste e populiste giocheranno tutte le loro carte per ottenere quel successo che hanno mancato di poco nel 2013. Purtroppo i partiti più europeisti non sembrano in grado di cogliere il senso della sfida ed invece di proporre un'alternativa chiara e credibile all'elettorato sembrano inclini a prestar orecchio alle sirene euroscettiche. Intervenire nella campagna elettorale per mettere in guardia da questi pericoli e per indirizzare partiti e candidati verso le soluzioni più ragionevoli e più europee è un dovere al quale non possiamo sottrarci, perché un deragliamento dell'Italia avrebbe sicuramente gravi conseguenze sull'intero processo di unificazione europea. Non sappiamo ancora se la legge elettorale subirà modifiche, che oggi appaiono molto improbabili, per assicurare una maggioranza al partito o allo schieramento che prevarrà o se si dovrà ripiegare su un governo che metta insieme forze non proprio omogenee. In ogni caso, per salvare l'Italia dal baratro e dal caos la discriminante non potrà che essere la fedeltà alla scelta europea ed anzi l'obiettivo del nuovo governo dovrebbe essere proprio quello di contribuire al rilancio dell'unificazione europea in senso federale e sovranazionale, come è avvenuto nei momenti migliori della nostra storia.