La relazione di Beda Romano alla con- segna consegna del Premio giornalistico "Altiero Spinelli"

Filosofo liberale di origine ebraica, Raymond Aron (1905-1983) conosceva bene la Germania. Visse nel paese in particolare tra il 1930 e il 1933, assistendo quindi all’arrivo al potere di Adolf Hitler. Era stato allievo dell’Ecole Normale Supérieure negli anni Venti e ai tempi aveva passato il concorso dell’agrégation ed era quindi agrégé de philosophie, vale a dire professore universitario in filosofia. Tra il 1930 e il 1931 studiò a Colonia, poi dal 1931 al 1933 a Berlino. Proprio a Berlino, nel maggio del 1933, assistette ai primi autodafé del regime nazista.

Nelle sue memorie, pubblicate a Parigi dall’editore Julliard l’anno della sua morte, racconta come nel 1932 fu chiamato a scrivere un articolo per la rivista Europe in cui deve analizzare l’allora situazione tedesca. Scrisse ai tempi: «La Germania è diventata pressoché impossibile da governare in modo democratico». Nell’articolo, Raymond Aron annunciava come inevitabile la prossima nascita di «un regime autoritario», incerto ancora se sarebbe stato guidato dal nazionalista-conservatore Kurt von Schleicher o dal nazional-socialista Adolf Hitler.

Le parole di Aron suonano oggi particolarmente appropriate per illustrare la situazione in molti paesi occidentali. La democrazia è in crisi. Alcuni esempi tratti dalla cronaca quotidiana lo confermano.

In molti paesi l’esercito gioca ormai un ruolo di primo piano per garantire la sicurezza. In Belgio pattuglia le strade. In Francia e in Italia è massicciamente presente nelle stazioni e negli aeroporti. Il governo francese ha deciso di introdurre lo stato di emergenza, un’opzione concessa dalla legge ma che permette alle autorità di polizia ampi se non eccessivi margini di manovra. La stessa recente proibizione del burkini su alcune spiagge francesi è sintomo della ricerca di un delicato equilibrio tra sicurezza e libertà.

L’Ungheria e la Polonia sono paesi nei quali a rischio è lo stato di diritto, secondo la Commissione europea. Nei due paesi, il governo in carica, nazionalista e conservatore, ha introdotto misure controverse. A Varsavia è stato limitato il potere della Corte costituzionale. A Budapest, si avverte un crescente controllo del governo sui mass media. Potremmo anche sostenere che la scelta frequente di governare a colpi di referendum, mettendo in dubbio il concetto stesso di democrazia rappresentativa, rifletta le difficoltà a governare in modo democratico.

Neppure negli Stati Uniti la democrazia si può dire totalmente sana. Non mi riferisco tanto alla possibilità che alla Casa Bianca giunga Donald Trump, un uomo che ha dimostrato negli anni una vena razzista. Secondo le ultime statistiche, al 27 settembre scorso, le forze di polizia hanno ucciso dall’inizio dell’anno 798 persone. La città più violenta è Los Angeles, seguita da Phoenix e Houston.

Le ragioni di questa deriva della democrazia sono numerose. Per facilità di esposizione, ne individuerei tre.

La prima è la crisi economica. Da quasi dieci anni, il mondo occidentale e l’Europa in particolare devono fare i conti con lo sconquasso finanziario che nel 2008 ha contribuito al drammatico fallimento di Lehman Brothers. La crescita economica in molti paesi rimane bassa, il debito pubblico è elevato, così come la disoccupazione giovanile. L’insoddisfazione sociale si tocca con mano, e l’assottigliamento della classe media è un fenomeno preoccupante, che sta rafforzando sempre più i partiti anti-sistema, inducendo molti governi a rincorrere i loro programmi. Di recente, la multinazionale americana Caterpillar ha annunciato la chiusura di un sito in Belgio. Il partito liberale (Mouvement Réformateur) attualmente al governo ha proposto l’esproprio del terreno e possibilmente dei macchinari.

La seconda ragione è certamente la minaccia terroristica. L’insuccesso della politica delle potenze occidentali in Afghanistan, in Irak, in Libia, in Siria ha rafforzato un islamismo radicale che vede nei paesi europei il nemico da combattere. La Francia ha subito in 18 mesi tre attentati sanguinosi che hanno provocato oltre 250 morti. Il Belgio è stato anch’esso colpito, così come a sorpresa anche la Germania. I governi sono chiamati a introdurre scelte controverse, alla ricerca di un delicato equilibrio tra sicurezza e privacy, tra protezione e libertà. La stessa emergenza rifugiati è fonte di preoccupazione, soprattutto nei paesi dell’Est Europa, poco abituati alla presenza d’immigrati. Reazioni nazionalistiche, tra muri ed espulsioni, si moltiplicano.

La terza ragione della crisi della democrazia è forse meno evidente. Ha a che fare con le reti sociali e le nuove forme di comunicazione.

Ormai la democrazia non è più rappresentativa. Ministri e premier governano a colpi di tweets, coltivando spasmodicamente il rappor to diretto con gli elettori. Facebook è un enorme foro telematico in cui tutti possono esprimere emozioni, impressioni, giudizi più o meno sensati, più o meno convincenti. La stampa non è esente da colpe perché troppo spesso cavalca colpevolmente gli umori dell’opinione pubblica. Il settore sta attraversan do una crisi esistenziale con pochi precedenti. Internet offre informazione gratuita e di facile accesso, mettendo in evidente difficoltà giornali e riviste. In ambasce nel far quadrare i conti, i quotidiani cadono spesso nell’intrattenimento nel tentativo incerto di attirare lettori.

I tweets di giornalisti e commentatori hanno sovente una vena populistica con l’obiettivo di scrivere quanto i lettori vogliono leggere e aumentare così il numero di followers in un contesto professionale molto incerto. Il risultato è che in molti paesi il giornalismo cavalca il qualunquismo, complicando ulteriormente l’attività di governo.

In questo contesto, una maggiore integrazione europea – così come propugnata nel Manifesto che porta il nome di questa isola – si rivelerebbe utile. Un’ulteriore condivisione dei poteri e dei costi permetterebbe di rispondere con maggiore efficacia alla minaccia terroristica, all’emergenza rifugiati, alla crisi economica, allo sconquasso bancario, al disagio sociale, all’instabilità internazionale, e più in generale alle tensioni politiche provocate dal referendum britannico con il quale il Regno Unito ha annunciato in giugno il clamoro so desiderio di lasciare l’Unione.

Invece, l’establishment politico europeo sembra paralizzato, o addirittura trascinato verso una risposta sempre più nazionale o locale. Certo, negli ultimi mesi i paesi fondatori si sono incontrati in vari formati nel tentativo di ridare slancio all’integrazione europea, ma le differenze nazionali sono evidenti. La Germania e la Francia si appoggiano a vicenda pubblicamente, ma la forza relativa della Repubblica Federale rispetto al partner francese indebolisce la tradizionale alleanza tra i due paesi. Ancor più sorprendente è la distanza che si è venuta a creare tra i paesi del Benelux. Da sempre, alla vigilia di ogni vertice europeo, Olanda, Belgio e Lussemburgo hanno l’abitudine di incontrarsi per trovare una posizione comune sui temi del momento. In febbraio, in occasione del summit tutto dedicato alla Gran Bretagna, i tre paesi hanno preferito cancellare l’incontro, consapevoli delle troppe divergenze.

Qualche giorno dopo il referendum britannico, il 27 giugno, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente france se François Hollande e il premier italiano Matteo Renzi si sono incontrati a Berlino. L’esito dell’incontro è stato uno smilzo comunicato in cui si nota l’importanza di assicurare “la sicurezza interna ed esterna”, “un’economia e una coesione sociale forte”, e “programmi ambiziosi per i giovani”. I dossier più delicati – a cominciare dall’eventuale trasferimento di sovranità dagli stati membri alle autorità comunitarie per immaginare tra le altre cose una graduale mutualizzazione dei debiti pubblici – sono stati ignorati perché fonte di troppe divisioni. Le stesse preoccupazioni hanno influenzato il comunicato finale del vertice europeo di fine giugno, che ha permesso ai partner della Gran Bretagna di incontrarsi informalmente per fare il punto sul futuro dell’Unione. Lo stesso può dirsi per il vertice che si è tenuto qui la settimana scorsa.

Tre sono i fattori che in questo momento non fanno prevedere grandi passi avanti verso una maggiore integrazione in senso realmente federale.

Il primo elemento è il referendum britannico del 23 giugno scorso. A dire il vero, non è chiaro se il voto debba per forza rafforzare i partiti più nazionalisti ed euroscettici. Non si può escludere che nel lungo termine un’eventuale crisi politica in Gran Bretagna così come il dubbio di numerosi inglesi per la scelta che hanno fatto inducano molti elettori continentali a rivalutare dopotutto la costruzione europea.

Ciò detto, agli occhi di molti governanti europei, il voto favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Unione è oggi prima di tutto una sconfitta dell’ormai ex premier conservatore David Cameron che aveva fatto campagna per il Remain. Si fa quindi strada la tesi per cui politiche troppo europee sono lontane dalle necessità delle pubbliche opinioni locali e di conseguenza indirettamente rafforzano i partiti più radicali ed euroscettici. In questo contesto, la risposta nazionale rischia di essere privilegiata.

Il secondo fattore, strettamente legato al primo, dipende dal calendario politico. Sia la Francia sia la Germania saranno chiamate a votare nel 2017: la prima per un nuovo presidente della Repubblica; la seconda per un nuovo Bundestag. Elezioni parlamentari sono previste anche nella Repubblica Ceca e in Olanda, mentre in Ungheria si voterà per un nuovo presidente della Repubblica. Si voterà nel 2018 anche in Italia, in Finlandia, in Svezia, e a Cipro. Incalzati da partiti nazionalisti sempre più minacciosi in Francia il Front National, in Germania Alternative für Deutschland è facile immaginare che la classe politica preferirà usare la ruhige Hand come dicono i tedeschi, la mano leggera. Memori della lezione inglese e preoccupati all’idea di proporre soluzioni forse utili a medio termine, ma troppo controverse nel breve periodo, i governanti europei preferiranno lo status quo, se non addirittura la risposta nazionale, solo apparentemente più rassicurante ed efficace.

Il terzo fattore è relativo alla debolezza della Commissione europea. Fin dai primi mesi del suo mandato, iniziato alla fine del 2014, il desiderio di Jean-Claude Juncker di essere alla guida di una Commissione fortemente politica non è piaciuto a molti governi, che nei fatti si sono sentiti esautorati. Alcune coraggiose proposte legislative hanno provocato critiche e tensioni tra e nei Ventotto: dal ricollocamento obbligatorio dei rifugiati arrivati in Italia e in Grecia alla nascita di un Corpo europeo di guardie di frontiera autorizzato a entrare con la forza sul territorio di uno stato membro. La visione troppo federalista ha creato nervosismi e disaffezione, tanto più che è stata associata a un’applicazione troppo discrezionale, o almeno ritenuta tale, delle regole del Patto di Stabilità e di Crescita. Il rapporto di fiducia che dovrebbe legare l’esecutivo comunitario ai governi nazionali sembra essersi incrinato. Ormai molti governanti dichiarano esplicitamente la preminenza del Consiglio europeo rispetto alla Commissione europea, del metodo intergovernativo rispetto al metodo comunitario. Qualsiasi spinta verso una maggiore integrazione di natura federale rischia di essere influenzata se non ostacolata, oltre che dalle considerazioni precedenti, anche dalla mancanza di un impulso dell’esecutivo comunitario e dalla prevalenza nel Consiglio di una politica che sarà segnata dal minimo comune denominatore e dal compromesso al ribasso.

L’avvertimento di Raymond Aron a proposito della Germania negli anni Trenta assume in questo contesto un significato particolarmente attuale. Se governare in modo democratico è diventato sempre più difficile è anche probabilmente perché l’assetto attuale dell’Unione – non più confederazione, non ancora federazione – oltre a essere inefficiente, contribuisce a un’evidente disaffezione per il progetto europeo, a una crescente insoddisfazione sociale e a una perdurante crisi economica. In questo senso, lo stato delle nostre democrazie in Europa è diventato un fattore importante per capire il futuro dell’Unione tanto quanto il rapporto tra le principali istituzioni comunitarie.

  

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