Yuan, dollaro, euro

La gran cagnara agostana sulla cosiddetta svalutazione del renmimbi (la ‘moneta del popolo’) ha fatto passare in secondo piano perfino il terzo salvataggio europeo della Grecia, che pure contiene innovazioni sostanziali per rimodulare il rapporto fra l’austerità e la crescita a favore della seconda. Si può capire che i giornalisti, animati da obiettivi di vendita, drammatizzino il fatto del giorno (in fondo la Grecia è in scena da troppo tempo per non avere stancato i lettori, come accadrà anche alle povere vittime di una speranza che si tramuta ogni giorno in tragedia nel nostro Mediterraneo).

Diverso è il caso degli articoli scritti da alcuni economisti premi Nobel (sempre americani), per i quali dovremmo ricercare motivazioni molto più complesse e meno trasparenti, ma pur sempre – temo – di natura commerciale. Addirittura troviamo analisi rigorose e sobrie da parte di giornalisti economici e, viceversa, libelli livorosi e ideologici firmati da qualche Nobel. Un esempio per tutti è la contrapposizione nella stessa pagina (la 9) de la Repubblica del 15 agosto di un articolo di Alessandro Penati, La sindrome cinese è un problema da non ingigantire, che veramente aiuta il lettore a capire la politica valutaria cinese e le sue finalità, e di un articolo di Paul Krugman, Pechino dimentica che i mercati non si controllano, infarcito dei soliti luoghi comuni anticinesi e neoliberisti, in contrasto (poiché serve al prolungamento del privilegio internazionale del dollaro) con la stessa proclamata fede keynesiana dell’Autore.

Cos’è successo sul serio? Il 22 luglio il Comitato esecutivo del Fondo Monetario Internazionale ha concluso la consultazione con la Repubblica popolare cinese prevista dall’art. 4 dello Statuto per tutti i Paesi aderenti. Il verbale della riunione (IMF - Press Release N° 15/380 – August 14, 2015) prende atto del rallentamento dello sviluppo e della necessità di procedere ad una crescita dei consumi interni più sostenuta e più distribuita. Gli investimenti rappresentano già, nel 2014, il 46% del PIL, e sono coperti da un risparmio nazionale pari al 48,1% del PIL. L’eccesso di risparmio, pari al 2,1%, corrisponde (equivalenza di contabilità nazionale) al surplus delle partite correnti (merci e servizi) della bilancia dei pagamenti con l’estero, ridottosi della metà rispetto al 2010, e molto di più con riferimento ai livelli precedenti la crisi. Questi numeri ci dicono che la Cina ha fatto i famosi “compiti a casa” per contribuire alla riduzione degli “squilibri fondamentali” (surplus cinese/vs. deficit americano). Il verbale riporta poi le consuete raccomandazioni concernenti la politica economica e le riforme interne, in particolare per quanto riguarda il sistema bancario e finanziario. Qui c’interessa sapere cosa hanno raccomandato i Direttori del Fondo ai Rappresentanti cinesi in tema di politica valutaria. Traduco alla lettera, ma le parentesi e i corsivi sono miei.

“I Direttori hanno sottolineato la necessità di ulteriori riforme strutturali per rendere l’economia cinese più aperta e basata sul mercato e per promuovere ulteriori ribilanciamenti interni. Queste includono: la promozione di un sistema finanziario e di un contesto di politica monetaria più fondati sul mercato, con il completamento della liberalizzazione dei tassi d’interesse e l’eliminazione delle garanzie implicite; la riforma delle imprese statali; il passaggio ad un sistema di cambi effettivamente fluttuanti; il rafforzamento del sistema fiscale, ivi inclusi le relazioni tra governo centrale e governi locali, il sistema di sicurezza sociale e la politica fiscale. (I Direttori) hanno riconosciuto che queste riforme sono nell’agenda delle Autorità (cinesi) e hanno apprezzato i passi già compiuti. Guardando avanti, hanno raccomandato una risoluta e tempestiva implementazione delle riforme previste.”…..”(I Direttori) hanno raccomandato di ridurre ulteriormente l’eccesso di risparmio e di raggiungere una bilancia esterna sostenibile. Hanno anche preso nota della valutazione dello staff secondo cui, a seguito del sostanziale apprezzamento del renmimbi in termini reali (al netto dell’inflazione) ed effettivi (ponderati con il peso delle monete di effettivo interscambio), il renmimbi non può più ritenersi sottovalutato. Alcuni Direttori (una minoranza) hanno sostenuto che un altro apprezzamento potrebbe facilitare ulteriormente l’aggiustamento esterno (la riduzione del surplus cinese). I Direttori hanno apprezzato i passi compiuti per liberalizzare i movimenti di capitale e hanno raccomandato di programmare attentamente questi sforzi.”

Detto fatto! Tornati a casa da Washington i Cinesi, nei primi giorni di agosto, prima ancora che il verbale della riunione fosse reso pubblico, hanno provato a lasciar fluttuare il renmimbi com’era stato raccomandato loro dai Sacerdoti del Capitalismo globale, col risultato di un modesto deprezzamento (per ora 5-6%, un decimo dell’apprezzamento realizzato negli anni precedenti, niente rispetto alle perdite di valore dell’euro o dello yen). Il grido di dolore che si è levato da gran parte del mondo ha convinto la Banca del Popolo Cinese a compiere acquisti della propria valuta per evitarne una svalutazione maggiore. Dev’essere a questo punto che Krugman è caduto in confusione, tanto che nello stesso articolo ha attaccato la Cina sia per “aver lasciato che lo yuan si svaluti” sia per “aver pensato di poter ordinare ai mercati cosa fare”.

Il comportamento cinese, conforme alle raccomandazioni del Fondo, s’inscrive nel processo di de-dollarizzazione dell’economia mondiale, nella tendenza spontanea in atto verso un sistema monetario internazionale multi-valutario – di cui il renmimbi aspira a far parte - e nel progetto di ridurne i rischi attraverso un’àncora monetaria mondiale, il paniere rappresentato dai diritti speciali di prelievo sul FMI, di cui il renmimbi dovrebbe entrare a far parte. I pianeti che ruotavano intorno ad un unico Sole, il dollaro, si sono a poco a poco riorganizzati in sistemi più piccoli. La strada è stata aperta dall’euro, che è diventato un Sole esso stesso, ed è ora seguita dai Paesi emergenti. Manca ancora un Sole dei Soli.

Nel 2010 il G20 aveva deciso, fra l’altro, di avviare una riforma della governance del FMI, ancora dominato dagli Stati Uniti (la cui quota consente un diritto di veto) e dall’Europa.  Era stato previsto un modesto spostamento del 6% dei diritti di voto dai Paesi sviluppati a quelli emergenti e in via di sviluppo, ma neanche questo piccolo passo è stato fatto perché il Congresso americano si è rifiutato di cooperare. Conseguentemente, dopo aver stipulato una serie di accordi bilaterali e multilaterali diretti a eliminare completamente l’uso del dollaro nelle transazioni tra di loro, il 15 luglio dello scorso anno i BRICs – Brasile, Russia, India e Cina, cui si è aggiunto il Sudafrica – si sono riuniti a Fortaleza per varare due nuove istituzioni finanziarie. La prima, la New Development Bank (NDB), con sede a Shanghai e primo presidente indiano, si aggiunge alle numerose banche di sviluppo, regionali o nazionali, i cui finanziamenti complessivi nel 2013 hanno surclassato i 52,6 miliardi di dollari erogati dalla Banca Mondiale. Il capitale della NDB, inizialmente di 50 miliardi di dollari, potrà essere aumentato a 100 miliardi. L’altra istituzione, il Contingency Reserve Arrangement (CRA) non è un fondo, ma un meccanismo: un insieme di promesse bilaterali di rendere disponibili riserve valutarie al Paese in difficoltà. Tali disponibilità sono assicurate per 41 miliardi di dollari dalla Cina, per 18 ciascuno dal Brasile, dalla Russia e dall’India e per 5  miliardi dal Sudafrica. La Cina partecipa a un altro meccanismo simile concordato con alcuni Paesi dell’ASEAN.

L’Europa è stata “esempio e motore” per altri processi d’integrazione regionale. Nello stesso tempo il processo impetuoso di globalizzazione, che il dogma neo-liberale ha abbandonato alla presunta perfezione dei mercati, ha posto in evidenza questioni che richiedono, invece, politiche mondiali.   Gli Stati Uniti, da soli, non possono più garantire i beni comuni indispensabili (come la stabilità monetaria e la sicurezza) perché questo processo possa proseguire senza perturbazioni ancor più gravi di quelle già in atto. D’altra parte la distribuzione più equilibrata del potere economico fra le diverse aree del mondo impedisce di prevedere il passaggio del testimone da una potenza egemone a un’altra, come avvenne, per l’ultima volta e limitatamente al mondo occidentale, dal Regno Unito agli Stati Uniti. Solo la cooperazione internazionale e la sua democratizzazione potranno consentire il governo della globalizzazione. Il “federalismo in un solo Paese” è precario, tende all’impero (come nel caso americano) oppure alla frammentazione nazionale (rischio non ancora scongiurato in Europa) . Il superamento della ragion di stato a livello mondiale è condizione necessaria per l’affermazione di federazioni regionali stabili. Ogni passo in questa direzione tende a realizzare l’aspetto di valore del federalismo: la pace. Non si deve avere difficoltà, restando vigili, a riconoscere la saggezza che ispira la Cina a promuovere una moneta-paniere di riserva internazionale proprio mentre il renmimbi si prepara ad affiancare l’euro e il dollaro nell’attuale sistema multi-valutario. Il messaggio è: siamo forti, ma disponibili a condividere la nostra forza. Obama l’ha compreso, ma il Congresso? Un’iniziativa europea sarebbe decisiva. Juncker l’ha compreso inserendo nel programma della sua Commissione la rappresentanza unitaria dell’Eurozona nel Fondo Monetario Internazionale. Ma Juncker è un gigante con pochi poteri, in un Continente che si ostina a difendere la sovranità dei nani. Sembra proprio che ci sia ancora da fare per i federalisti europei.

  

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