David Cameron pare deciso ad anticipare di un anno il referendum sulla appartenenza britannica alla UE, mettendo in agenda la proposta di legge che convoca il referendum, previsto per maggio oppure ottobre 2016. Non sembra intenzionato ad attendere gli esiti di una eventuale rinegoziazione, promessa al suo elettorato, bensì a chiedere semplicemente un SÌ o un NO per l’appartenenza all'UE. Un secco, Yes or No, sul modello del referendum in Scozia, nell'attesa che un eventuale SÌ, magari di misura, possa rivelarsi un utile strumento negoziale, dopo aver riscontrato che c’è uno scarso margine di manovra per modificare i trattati. Dunque, un semplice “In or Out”. Un sondaggio reso pubblico il 19 giugno registrava il maggior sostegno (66%) dei britannici per la permanenza nell'UE da 24 anni a questa parte. Analogamente, anzi in modo più massiccio, si esprimeva il mondo accademico britannico.
Il rapporto tra il continente e il Regno Unito è sempre stato problematico. Negli anni Trenta del Novecento nacque in Inghilterra il gruppo di “Federal Union” che elaborò le prime analisi federaliste sull’ordine internazionale e che rivelarono ad Altiero Spinelli e a Ernesto Rossi l’alternativa da costruire nel dopoguerra. E Winston Churchill fu il primo propugnatore dell'idea degli Stati Uniti d’Europa. Tuttavia la Gran Bretagna è anche lo stesso paese in cui l'euroscetticismo è sempre stato un elemento endemico, che è cosa diversa dall'euro-delusione dei paesi mediterranei, fiaccati da errori di gestioni della crisi e dalla debole reazione delle attuali istituzioni europee. Le basi di questo rapporto così tormentato risiedono
in una visione della “eccezionalità culturale e storica” del Paese, tipica delle élite inglesi, basata sulla convinzione che il Regno Unito abbia storia e istituzioni diverse e che la civiltà anglosassone sia diversa da quella continentale. Un altro elemento che ha contribuito allo scetticismo inglese risiede invece nelle circostanze in cui il Paese entrò nella CEE (1973). Fino ad allora il Paese visse un lungo periodo di crescita volatile e di relativa stagnazione economica: in quelle condizioni l'adesione alla CEE fu presentata all’opinione pubblica come necessaria per un rapido ritorno alla crescita e alla competitività. Ma il 1973 segnò anche la fine del sistema di Bretton Woods, cioè la fine della stabilità monetaria internazionale e l'inizio della stagflazione conseguente all'aumento dei prezzi del petrolio. Ciò contribuì non poco a deludere l’opinione pubblica per il mancato ritorno alla crescita e a rafforzare la percezione che l'ingresso nella CEE non avesse in fin dei conti contribuito al benessere britannico, nonostante le serie statistiche dicano il contrario. Forse è questa una delle ragioni per cui uno dei gruppi più propensi a votare contro la permanenza nella UE sia proprio quello degli over 60, che è appunto cresciuto sulla base di quella delusione iniziale.
Un altro elemento del rapporto tormentato con l'UE risiede in una sorta di crisi esistenziale: la fi ne dell'impero e di un mondo che, comunque,fino agli anni '70 era profondamente diverso, fatto anche del sogno di una realtà agreste, bucolica, molto idealizzata e culturalmente omogenea, ben rappresentata in molte serie televisive, come, ad esempio, “Downton Abbey”. È il ricordo di un'epoca perduta e di un grandissimo passato imperiale, che impedisce a molti di accettare un paese che, pur mantenendo il vantaggio competitivo di essere la patria della lingua franca del mondo, di essere un grande centro finanziario, di avere un'economia competitiva, di disporre di grandi università, non è più comunque al centro del mondo.
C’è infine un altro problema alla base di questo rapporto con l’Europa: la mancanza di una capacità di sintesi tra le aspirazioni atlantiche del paese - e quindi l'adesione totale al modello americano - da una parte, e la fascinazione verso i paesi nordici d'ispirazione socialdemocratica, con il conseguente mantenimento dello storico welfare state, dall'altra. Il XX secolo e la sua eredità non sono caratterizzati nel Regno Unito solo dal volto di Winston Churchill o di Elisabetta II, quanto piuttosto da quello di altri due personaggi storici: Clement Attlee e Margareth Thatcher. Il primo fu il fondatore e il sostenitore, con il contributo fondamentale di William Beveridge, del più grande programma di welfare della storia britannica e occidentale. Fu tra i fondatori del Consiglio d'Europa e dell'Alleanza Atlantica e non esitò ad attuare una rapida decolonizzazione, rinunciando anche all'India, la perla dell'Impero, pur di finanziare ambiziose politiche sociali in patria. Poi, Margareth Thatcher, la madre delle politiche neoliberiste e della riduzione della presenza dello stato nell’economia, con una forte contrazione dei programmi di assistenza sociale. Ma anche l’iniziatrice di un nuovo protagonismo britannico nel mondo globale, ben rappresentato dalla guerra nelle isole Falkland, simbolo della volontà di difendere l'eredità imperiale: resta indimenticabile l'immagine di copertina di Newsweek con la portaerei HMS Hermes e tanto di citazione The Empire strikes back (“L’Impero colpisce ancora”). Forse la chiave che impedisce al Regno Unito e alla sua classe politica di affrontare l'integrazione europea sta nella risoluzione di questa crisi esistenziale, ovvero nel passaggio da una condizione di paese post-imperiale a quella di un paese ordinario.