Di fronte alla pandemia, gli stati membri dell’Ue sono riusciti a superare le loro divisioni, accettando l’iniziativa della Commissione europea. Quest’ultima, però, per tenere insieme le diverse esigenze di quegli stati, ha dovuto accettare vincoli alla propria capacità negoziale che ne hanno rallentato l’azione. Un rallentamento che è costato vite umane.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
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La pandemia ha messo in discussione le policies esistenti per affrontarla. La sua scala ha reso evanescenti le frontiere nazionali e i sistemi di politica sanitaria ad esse associati. Gli stati europei hanno impiegato secoli per creare sistemi sanitari che proteggessero la salute dei loro cittadini, in pochi mesi hanno dovuto prendere atto che quest’ultima dipende da fattori che vanno ben al di là delle loro capacità protettive. Il nazionalismo vaccinale non basta per sostenere (finanziariamente, industrialmente, scientificamente) la ricerca anti-pandemica, ma basta e avanza per generare rivalità tra i Paesi impegnati in quella ricerca.
L’Unione europea (Ue) è riuscita a evitare tali rivalità, ma l’ha fatto in modo insufficiente. Come aveva previsto Frank Fukuyama (in un saggio pubblicato su The Atlantic nel marzo scorso), la battaglia contro la pandemia richiede due condizioni preliminari per essere vinta, capacità decisionale e risorse adeguate. Condizioni che l’Ue non ha soddisfatto.
Secondo Our World in Data, al 25 febbraio di quest’anno erano stati vaccinati il 20,41 per cento degli americani, il 29,57 per cento dei britannici, ma solamente il 6,06 per cento dei francesi, il 6,53 per cento degli italiani e il 6,82 per cento dei tedeschi.
Come spiegare una simile differenza? La risposta (a mio parere) va cercata nel processo decisionale europeo. Per i Trattati europei, la politica sanitaria è una competenza esclusiva nazionale, addirittura in alcuni Paesi (come il nostro) essa è stata decentrata alle regioni. Così, nei primi mesi dell’anno scorso, furono gli stati (i più grandi) ad attivarsi per contrastare la pandemia.
A metà aprile, la Francia e la Germania iniziarono una negoziazione per prenotare i futuri possibili vaccini, allargando quindi la loro alleanza a Italia e Paesi Bassi (dando vita all’Inclusive Vaccine Alliance).
Questa iniziativa, però, rischiava di mettere ai margini i Paesi più piccoli e con meno risorse. Il 12 giugno, seppure con resistenze al loro interno, i 27 ministri della salute degli stati membri dell’Ue concordarono di affidare alla Commissione europea il compito di definire un piano europeo per comprare i vaccini dalle imprese farmaceutiche. Il 17 giugno, la Commissione presentò il suo piano vaccinale, basato sull’attivazione di un meccanismo (l’Emergency Support Instrument) che le avrebbe consentito di negoziare direttamente con le industrie farmaceutiche la fornitura dei vaccini, da distribuire quindi agli stati sulla base della loro popolazione. Per convincere l’Inclusive Vaccine Alliance a rinunciare alla propria autonoma iniziativa, la Commissione, oltre a riorganizzare la sua Direzione generale alla salute (DG SANTE), costituì un comitato di sette membri (di cui quattro provenienti dai Paesi dell’Inclusive Vaccine Alliance) per gestire la negoziazione con le società farmaceutiche. Alla guida del comitato fu nominata Sandra Gallina, una funzionaria europea di riconosciuta esperienza nelle trattative commerciali. A questo punto, l’Inclusive Vaccine Alliance decise di fare un passo indietro, lasciando alla Commissione il compito di negoziare con le imprese farmaceutiche.
Finalmente, la Commissione era riuscita a ricondurre a un approccio unitario le esigenze distinte dei 27 Paesi dell’Ue. Ciò richiese tempo, mentre la pandemia continuava a diffondersi. Non solo, tale approccio unitario venne accettato dai 27 Paesi a precise condizioni. La Commissione doveva impegnarsi ad allargare la selezione dei potenziali vaccini, a comprarli al prezzo più basso possibile e a imporre alle imprese farmaceutiche la completa responsabilità legale per eventuali fallimenti. Condizioni encomiabili ma rigide, i cui effetti consistettero in un rallentamento della negoziazione rispetto a quella condotta dalle autorità sanitarie americane e britanniche, dotate invece di una maggiore discrezionalità decisionale. Tant’è che queste ultime furono in grado di giungere ad accordi con le imprese farmaceutiche assai prima della Commissione europea. Come se non bastasse, molti Paesi europei avevano tardato a trasferire a Bruxelles il budget dovuto per sostenere la negoziazione della Commissione, indebolendo necessariamente quest’ultima. Alla fine, la Commissione riuscì ad ottenere, dalle imprese farmaceutiche, condizioni economiche più vantaggiose rispetto a quelle conseguite dagli americani e britannici, ma con tempi più lunghi. Tempi ulteriormente allungati dalle procedure di approvazione dei vaccini in vigore nell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), più complesse e garantistiche rispetto a quelle adottate sia dalla americana Food and Drug Administration (Fda) che dalla britannica Medecines and Health Care products Regulatory Agency (Mhra). Come se non bastasse, la complessità istituzionale e organizzativa del meccanismo per la distribuzione dei vaccini nei singoli Paesi europei ha ulteriormente accentuato il ritardo iniziale. In situazioni di emergenza, infatti, i sistemi di governo multilivello producono tensioni tra i vari livelli, non già cooperazione tra di essi.
Insomma, di fronte alla pandemia, gli stati membri dell’Ue sono riusciti a superare le loro divisioni, accettando l’iniziativa della Commissione europea. Quest’ultima, però, per tenere insieme le diverse esigenze di quegli stati, ha dovuto accettare vincoli alla propria capacità negoziale che ne hanno rallentato l’azione. Un rallentamento che è costato vite umane, anche se ha prodotto vantaggi finanziari. Un simile sistema intergovernativo, con risorse da negoziare costantemente, non può affrontare un’emergenza (oggi pandemica, domani ambientale, dopodomani militare). Eppure, le Conclusioni del Consiglio europeo di giovedì scorso continuano a difenderlo acriticamente. I fatti dicono invece che il coordinamento intergovernativo è necessario, ma non è sufficiente. È dal fallito tentativo del 1952 di istituire una European Public Health Community che i governi nazionali si oppongono alla formazione di una sovranità sanitaria sovranazionale che affronti sfide che vanno al di là della loro sovranità sanitaria nazionale. La pandemia ci ha ricordato che il consenso di tutti i 27 governi nazionali è meno importante della vita di tutti i cittadini europei.