Nel mese di maggio si è svolto un nuovo crudele capitolo del conflitto israelo-palestinese. Al riguardo va segnalato, oltre al generale rafforzamento delle tendenze estremistiche nelle due parti in conflitto, l’allarmante novità dello scontro fra ebrei e palestinesi cittadini dello stato israeliano, il che apre la seria prospettiva di una guerra civile in Israele. Ciò detto, come contributo alla discussione propongo molto schematicamente cinque considerazioni di carattere strutturale che dovrebbero, a mio avviso, orientare la ricerca di una soluzione giusta e duratura di questa storica tragedia. Esse si inquadrano in un orientamento di fondo espresso dal MFE fin da quando nel 1980 presentò una petizione al Parlamento europeo a favore della creazione di uno Stato palestinese e quindi in accordo con la formula “due popoli due stati” (si veda “Piemonteuropa”, 1980, n. 2), ribadita nella Dichiarazione del 21 settembre 2011 sul riconoscimento dello stato palestinese (“Piemonteuropa”, 2011, n.3). 

1) Va detto chiaramente che un fattore fondamentale del conflitto è costituito dalla linea estremistica e avventuristica di Hamas. Si tratta di un movimento caratterizzato dal fondamentalismo islamico e che ha come obiettivi, fissati nel suo statuto, la distruzione dello stato israeliano e l’espulsione di tutti gli ebrei dalla Palestina, nessuno dei quali dovrà “sfuggire alla guerra santa, né i civili né i bambini”. Hamas ha preso il potere a Gaza, evacuata dagli israeliani nel 2005, vincendo le elezioni palestinesi del 2006 contro Fatah, cacciandone con la forza gli esponenti e attuando una secessione dall’Autorità Nazionale Palestinese (presieduta dal successore di Arafat, Abu Mazen, sempre più indebolito dal rafforzarsi di Hamas in Cisgiordania). Dopodichè ha perseguito una azione di provocazione sistematica nei confronti di Israele, in particolare con il lancio dei missili sul suo territorio, che ha  portato all’ultimo attacco israeliano diretto a stroncare questa minaccia.
La condanna senza mezzi termini di Hamas e della sua azione terroristica è fuori discussione. Nello stesso tempo, se si vuole avere una visione politica adeguata della situazione, si devono mettere in luce le condizioni di fatto per cui un movimento del genere ha potuto prendere il potere con il consenso della grandissima maggioranza degli abitanti di Gaza (e di un numero crescente dei palestinesi di Cisgiordania) e, quindi, a coinvolgerli nel suo estremismo avventuristico. E qui deve essere sottolineato il ruolo innegabile rappresentato dall’estremismo che è presente nella politica israeliana. 

2) Il punto fondamentale è che questa politica è caratterizzata dal sostanziale rifiuto della soluzione della questione palestinese indicata dalle risoluzioni dell’ONU, che hanno il sostegno della Lega Araba, degli esponenti più illuminati delle popolazioni palestinesi e israeliane, dell’Unione Europea, della Russia e – con alcune incertezze manifestatesi in particolare con l’amministrazione Trump – degli stessi USA. I punti qualificanti di questa soluzione sono: la creazione, accanto a quello israeliano, di uno stato palestinese avente come proprio territorio la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerusalemme Est; il ritiro degli insediamenti israeliani da questi territori; la soluzione del problema dei profughi palestinesi, per i quali si deve prevedere un adeguato risarcimento, oltre alla piena cittadinanza nello stato palestinese (è la posizione sostenuta dalla Lega Araba in alternativa al principio del ritorno alle terre abitate prima del 1948 che comporterebbe sconvolgimenti insostenibili).
Questa sistemazione – che deve essere accompagnata da una strutturale cooperazione pacifica approfondita fra i due stati per la gestione comune delle acque, di alcune fondamentali infrastrutture, della loro interdipendenza economica, della sicurezza e dei luoghi sacri – viene rifiutata da Israele, che persegue una politica che impedisce qualsiasi effettivo sviluppo verso uno stato palestinese indipendente e vitale. Ne sono espressione gli insediamenti in Cisgiordania (oltre che a Gerusalemme Est), che continuano e sottraggono ai palestinesi la parte migliore di questo territorio, rendendo loro la vita impossibile. La stessa evacuazione dei 5000 coloni israeliani da Gaza è stata attuata senza alcun accordo con l’ANP, in modo da favorire il suo indebolimento, invece del rafforzamento della sua autorità. Il territorio della striscia di Gaza, in cui si concentrano in condizioni economiche e igieniche disumane un milione e mezzo di persone, è d’altra parte diventato con il blocco attuato da Israele un girone infernale.
In questa situazione, in cui non si vede alcun reale avanzamento verso una sistemazione evolutiva, è inevitabile l’affermarsi di tendenze estremiste e distruttive e il loro sistematico riprodursi. Alla scelta dell’OLP di Arafat in direzione di un accordo pacifico ha fatto seguito l’affermarsi di Hamas e, se questo movimento venisse (un’ipotesi molto azzardata) distrutto militarmente, si affermeranno forze ancora più estremiste. 

3) L’estremismo israeliano costituisce dunque un fattore da cui non si può prescindere per comprendere (il che non vuol dire giustificare) il consenso ottenuto dalle tendenze estremistiche nella popolazione palestinese e per avere in generale una visione veritiera del conflitto israelo-palestinese. Il discorso rimane però incompleto se non si prende in considerazione la situazione oggettiva che a sua volta alimenta in modo determinante l’estremismo israeliano.
Qui il punto fondamentale è che la sicurezza di Israele (e cioè la sua sopravvivenza) è sempre stata finora affidata in ultima analisi alla sua forza militare e, quindi, alla capacità di sconfiggere l’insieme delle forze arabe (e islamiche, comprendendo anche l’Iran) che la circondano. Finché non cambia questa condizione esistenziale, la ragion di stato israeliana è inconciliabile in ultima analisi (al di là di oscillazioni, tentennamenti e apparenti aperture) con l’istituzione di uno stato palestinese indipendente e vitale conformemente alle indicazioni dell’ONU. Di qui gli atteggiamenti militaristici, espansionistici e colonialistici che sbarrano la strada ad una sistemazione pacifica e durevole, tengono in vita una gravissima crisi cronica che può sempre degenerare in una crisi di dimensioni regionali e mondiali, non garantiscono il futuro di Israele in considerazione delle inarrestabili dinamiche demografiche, economiche e geopolitiche. 

4) Perché si possa uscire da questo groviglio, devono cambiare radicalmente i dati strutturali con cui si rapporta la ragion di stato israeliana, deve cioè affermarsi una situazione in cui la sicurezza di Israele e dei palestinesi (oltre che degli stati confinanti) sia garantita dall’intervento non episodico e di debolissima intensità, ma permanente e strutturale di un terzo rispetto alle parti in gioco. C’è un grande esempio storico da cui qui dobbiamo trarre ispirazione, ed è la politica americana che ha favorito in modo determinante la riconciliazione franco-tedesca e, su tale base, il processo di integrazione, pacificazione e democratizzazione dell’Europa. Va ricordato che l’intervento americano è consistito in un aiuto grandioso sia sul piano economico (il Piano Marshall subordinante un aiuto decisivo per la ricostruzione alla pacificazione-integrazione) che su quello della sicurezza (una presenza militare che ha reso di fatto impossibile la prosecuzione della politica di potenza fra Francia e Germania). Nel caso del conflitto israelo-palestinese, a un sostegno economico di grandi dimensioni – necessarie sia per la prosperità di Israele e la sua capacità di risarcimento nei confronti dei profughi palestinesi, sia soprattutto per permettere lo sviluppo di un vitale stato palestinese – deve accompagnarsi una duratura presenza politico-militare  di un attore esterno che, al di là delle pur necessarie forze di interposizione, superi alla sua radice il problema di una sicurezza affidata essenzialmente alla potenza israeliana e degli altri attori locali. 

5) L’attore del quale è indispensabile (e che può attuare) un intervento con queste caratteristiche è costituito essenzialmente dall’Unione Europea, dagli USA e dalla Russia (si tratta, comprendendo l’ONU, del quartetto di cui si è cominciato a parlare nel 2002). Il loro intervento deve non solo attuarsi su mandato ONU, ma si deve inquadrare in una più ampia iniziativa per la pacificazione del Medio Oriente avente due aspetti fondamentali: una conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel MO compreso l’Iran (disarmo, misure di fiducia, Nuclear Free Zone, cooperazione nel campo tecnologico e ambientale); l’avvio di un processo di integrazione regionale sul modello europeo a partire da Israele, stato palestinese e Giordania.
E’ evidente l’interesse di fondo che UE, USA e Russia hanno alla pacificazione del MO (e quindi alla soluzione della sua questione centrale costituita dal conflitto israeliano-palestinese), che è uno degli impegni prioritari se si vuole costruire un mondo più giusto e più pacifico in alternativa a una degenerazione verso una anarchia distruttiva. Ed è altrettanto evidente che in questo contesto l’UE è chiamata a svolgere un ruolo determinante in considerazione della sua esperienza di integrazione-pacificazione regionale (che è un modello per altri analoghi processi), della sua posizione geografica, dei fini solennemente dichiarati della sua politica estera, delle sue potenzialità politico-economiche, del fatto di non essere gravata, a differenza degli USA, dall’handicap rappresentato dall’essere sostanzialmente identificati con una delle parti in conflitto.
L’UE deve pertanto assumere la leadership del grande disegno – che dovrebbe diventare uno degli impegni fondamentali della politica mediterranea dell’UE – diretto alla soluzione del conflitto israelo-palestinese e alla pacificazione del MO. Il che comporta l’impegno a destinare a questa politica per lungo tempo grandissime risorse sul piano economico e della sicurezza, paragonabili precisamente a quelle a suo tempo impiegate con il Piano Marshall e la creazione dell’Alleanza Atlantica, e quindi ben maggiori dei pur utili, ma chiaramente inadeguati, interventi finora compiuti dall’UE.
Il compito di importanza vitale che l’UE deve assumere rinvia, è evidente,  allo scioglimento del nodo rappresentato dalla sua debole capacità di agire sul piano internazionale derivante dai suoi limiti confederali nei settori della politica estera, di sicurezza, di difesa e delle finanze e dalla connessa inadeguata legittimità democratica – una capacità di agire che è decisiva anche per poter contenere efficacemente le tendenze neoimperiali di Russia e Turchia. Lavorare per la piena federalizzazione dell’UE è perciò necessario per rendere solida e irreversibile l’unificazione europea e nello stesso tempo per rendere possibile il contributo decisivo europeo alla soluzione di un tragico conflitto che rischia di far compiere, non solo al MO, ma a tutto il pianeta un altro passo verso la catastrofe.

 

  

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