In febbraio di quest'anno Ursula von del Leyen, in piena pandemia, ribadiva lo spirito della Dichiarazione del Millennio firmata nel 2000 da 189 paesi, per incentivare i cittadini a profittare delle potenzialità di un mondo globalizzato per dare soluzione alle crisi puntando in alto per costruire un ordine internazionale fondato sul multilateralismo e sullo stato di diritto attraverso una cooperazione, una solidarietà e un coordinamento efficienti. Quella dovuta al covid era stata una crisi anomala e imprevedibile, ma l'Europa ha saputo reagire creando il Next generation Europe e abilitando il Pnrr all'insegna della solidarietà, nei lutti e nelle paure, con la responsabilità comune: imparare dalla pandemia (i sovranisti capiranno che il virus non conosce le frontiere?), rendere l'economia sostenibile (gli aiuti europei sono crediti e il debito Pnrr scatta nel 2026) e, in particolare, gestire oculatamente il potere delle nuove tecnologie...per creare un ambiente digitale sicuro, libero e aperto" a correzione della tendenza per "diffondere odio e commettere gravi reati". Il mondo post-covid vincerà le sfide accettando il multilateralismo inclusivo, orientato a costruire rapporti di pace: "tutti si uniscano alla conversazione globale proposta".
Non sarebbe bella retorica ma realismo, se non vivessimo in tempi in cui ogni giorno può succedere di tutto: a settembre il contesto era completamente cambiato. Se in luglio, durante il G7, a Carbis Bay Johnson e Biden si erano impegnati a relazioni migliori tra anglosassoni, a settembre hanno sottoscritto Aukus, l'accordo militare che privilegia la cooperazione in funzione anti-cinese e sposta l'impegno americano dall'Europa all'Asia Pacifico, con grande smacco per la Francia che ha perduto la commessa di dodici sottomarini a pulsione nucleare. Abbandonando l'Afganistan e rinunciando "a portarlo alla democrazia", Biden ha obbligato gli alleati europei ad rifare il conti con i problemi internazionali. E si è dovuti tornare a parlare di difesa europea, questa volta concretamente.
I federalisti sanno che nel Manifesto di Ventotene i padri fondatori pensavano che la nostra Europa democratica dovesse essere la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali. Ci fu (1952) il tentativo della Ced, che alla leggerezza dei posteri sembra un'occasione perduta se è vero che la difesa non si regge senza la politica estera, e, quindi, con la politica generale; ma le condizioni degli anni Cinquanta - era già attiva la guerra fredda est/ovest - non lo consentivano e anche Spinelli, che pure l'aveva caldeggiata, contribuì a bocciarla. Oggi la società europea è ancor più complessa e problematica; e priva, soprattutto in Italia, di partiti che abbiano "visione politica" e cura del futuro.
Comunque, si deve tornare a ragionare di "difesa europea" in termini di scelte concrete e relativamente urgenti. Probabilmente ci si ridurrà ad uno strumento di pronto intervento più simbolico che reale, ma effettivo.
Fino a pochi mesi fa nei preliminari strategici del G7 si prevedeva di implementare l’interoperabilità tra i sistemi di intelligence e di polizia anche per la sicurezza cibernetica, mentre si era rinviato al G20 di Napoli - saranno presenti anche i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e i Mikta (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia e Australia), dove Draghi sarà qualcosa di più di un padrone di casa, come è già successo nel recentissimo G20 a remoto sull'Afganistan). Solo che le trasformazioni sono avvenute in un momento difficile delle relazioni interne europee: la condivisione dei principi dello stato di diritto e dei diritti umani trova resistenze, mentre va mantenuta in equilibrio la barra del comando nei confronti sia della Russia di Putin, sia di Xi Jin Ping il grande destabilizzatore con cui non si può avere guerra, sia anche delle ambizioni di Erdogan. E da un mese si è tornati a parlare di "difesa europea".
Le intenzioni espresse dalla Commissione in settembre sullo "stato dell'Unione" sono state confermate dall'Alto commissario per la politica estera Borrell nell'incontro in Slovenia. Ma non sono indicazioni concrete e per programmare qualcosa presumibilmente si ricorrerà al Fondo europeo per la Difesa (dotazione 8 mld per il programma 2021/2026), con attenzione ad una situazione che esige autonomia, non interferenza con le strategie della Nato e contenuti ponderati. Che sia stato annunciato il summit sulla difesa con il presidente francese - con cui Mario Draghi ha discusso alcune settimane fa una linea comune - all’inizio del semestre francese (gennaio 2022) è significativo.
Resta un problema: in tutti gli intendimenti di programma è implicita, anche quando non chiaramente espressa, la promozione dell'industria bellica nella cui vetrina l'Italia espone prodotti di qualità. Introducendo il 5 agosto il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa per il triennio 2021-2023, il ministro della Difesa italiano Lorenzo Guerini ha confermato che “I programmi di innovazione tecnologica, cooperazione internazionale e ad alta valenza strategica sono elementi essenziali per garantire l’efficacia dello Strumento militare nazionale e renderlo capace di adeguarsi alle continue sfide di uno scenario globale in continua evoluzione. Ne deriva che i macro-indirizzi della politica militare italiana sono, sì, il riposizionamento attivo nello scenario internazionale ma anche il rilancio dell’industria bellica attraverso l’ammodernamento dello Strumento militare. La situazione del fianco Sud della Nato è sempre nevrotica e riguarda tutte le aree che afferiscono al Mediterraneo. Purtroppo entrano nelle operazioni che riguardano polizia e militari i drammatici problemi delle immigrazioni, ma la precarietà degli equilibri è ancor meno certa di consenso univoco. Eppure le presenze nel Mediterraneo turche, russe e cinesi e perfino un intervento della marina francese nei pressi di Cipro mostrano problemi reali di natura politica in tutti i paesi dell'area: se Israele e gli arabi sunniti hanno trovato vie ancora non ben collaudate di convivenza, restano i problemi fra Algeria e Marocco, la fragilità della Tunisia pur non confrontabile con l'instabilità della Libia e la chiusura illiberale dell'Egitto. Dando come note le situazioni dell'intero Medioriente, Yemen compreso, il voto recentissimo dell'Iraq a una maggioranza sciita, dopo le scelte talebane dell'Afganistan, confermano che "il" problema è un'Europa che in una larga parte crede di essere affacciata sul mare Artico.
Il Sipri di Stoccolma nel suo Rapporto sull'andamento della vendita globale delle armi denuncia la crescita delle esportazioni da parte dei paesi produttori (di armi che, poi, vengono utilizzate), nell'ordine Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Cina, Regno unito, Spagna, Israele, Olanda, Italia: armi leggere e pesanti finiscono in Medioriente. Se Von der Leyen ha affermato che “ci saranno missioni in cui la Nato o l’Onu non saranno presenti, ma in cui dovrebbe esserci l’Ue”, restano le preoccupazioni. Quelle di alti gradi dell'esercito, attivi o in pensione che temono l'ambiguità del dual army; ma per ora la Commissione non può avanzare proposte se non teoricamente e genericamente: è necessario muoversi all'interno dei Trattati e ottenere valutazioni congiunte delle sfide attuali per arrivare al momento decisionale senza danni. Sono importanti in primo luogo le sinergie dei settori sociali di competenza, non solo politici: la sicurezza riguarda certo le espressioni politiche locali, ma per mirare alto la responsabilità civile deve dare una mano: si tratta di controllare - in funzione preventiva, perché il mercato le diffonde a tutti, amici e nemici - l'innovazione delle armi autonome e cibernetiche, soprattutto di non aprire allo sviluppo di "disruptive technologies", derivate dall'Intelligenza artificiale, quantum computing robotica militare, e lo stesso, eventuale blockchain e cloud europeo. La soglia tra militare e civile è diventata molto bassa.
Questa analisi dei molteplici problemi con cui si deve confrontare la possibilità della nascita di una difesa europea servono a confermare l’urgenza ma anche le enormi difficoltà del compito. In parallelo è indispensabile che la Conferenza sul futuro dell'Europa produca un avvicinamento tra Francia e Germania, con l’Italia e la Spagna, verso riforme che rafforzino la dimensione europea di governo, a partire dal completamento dell’unione monetaria, per aiutare ad avvicinare le visioni dei Paesi guida e quindi iniziare a sciogliere i nodi che impediscono la nascita di un progetto comune su cui costruire concretamente una politica estera europea e una vera difesa.