Le regole fiscali europee si possono modificare senza cambiare i trattati. Il protocollo 12, infatti, quello che contiene i riferimenti numerici (il 60 per cento e il 3 per cento), può cambiare con una decisione politica del Consiglio.

L’obiettivo deve essere avere un solo strumento basato su grandezze osservabili e comprensibili dall’opinione pubblica. Noi proponiamo la regola della spesa netta: si definisce il tasso di crescita della spesa per un dato periodo che è compatibile con una riduzione del debito.

La golden rule per gli investimenti ha problemi applicativi e potrebbe essere sostituita se meccanismi come il Next Generation divenissero permanenti. La sanzione per un paese sarebbe semplicemente quella di non poter partecipare ad alcuni di questi meccanismi

Riformare le regole fiscali europee è oggi una necessità. Già prima della pandemia erano incoerenti tra loro, molto complesse e poco trasparenti. In più non hanno migliorato la pro-ciclità della politica fiscale, cioè il fatto che i governi tendono a spendere negli anni di crescita e a risparmiare negli anni di crisi invece che fare il contrario, contrastando appunto il ciclo economico. E non hanno migliorato nemmeno la qualità della spesa, che è l’elemento fondamentale per lo sviluppo di lungo periodo. 

Dopo la pandemia, la situazione è peggiore. Se il Patto di Stabilità e Crescita non fosse riformato, ci troveremmo con una “regola del debito”, che impone di ridurre di un ventesimo l’anno la distanza tra il debito sul Pil attuale e l’obiettivo di un debito al 60 per cento del Pil. Sarebbe inapplicabile ancor più di prima ai paesi ad alto debito, come l’Italia, perché con la pandemia il rapporto debito Pil è cresciuto di oltre venti punti percentuali.

Il patto attuale prevede anche per ogni paese un avvicinamento annuale all’obiettivo di medio termine per il bilancio strutturale; ma per calcolare questo sono necessarie stime del Pil potenziale e della distanza tra questo e quello effettivo (il cosiddetto “output gap”), che se già difficili prima della pandemia, rischiano ora di essere totalmente inaffidabili, visto che la pandemia ha anche inciso sul modo di produrre e consumare. 

Per non parlare poi di altre regole, come farebbe per esempio l’Italia a rispettare la regola del deficit al 3 per cento, se solo per prendere a prestito dalla Ue i soldi previsti dal Pnrr deve mantenere un deficit tra l’1,5 e il 2 per cento nei prossimi cinque anni?  

Senza una riforma si rischia o una interpretazione controproducente rispetto alla situazione economica oppure un eccesso di discrezionalità nell’applicazione delle vecchie regole.  

Ma c’è anche una seconda ragione per cui le norme vanno riviste: bisogna spendere di più per gli investimenti, soprattutto ma non solo, per quelli per la transizione energetica. 

Dalla crisi finanziaria in poi, l’economia europea cresce meno di quella degli Stati Uniti, il tasso di crescita della produttività è molto basso, perché bassi sono stati gli investimenti pubblici e privati e l’Europa è indietro sulle tecnologie per il futuro. Dunque, è necessaria una riforma che incentivi la spesa per investimenti.  

Come riformarle, dunque? Fare a meno delle regole è impossibile; al di là dei vincoli politici, esiste una ragione valida per la loro esistenza; evitare che i comportamenti opportunistici di un paese possano danneggiare gli altri e la reputazione della Banca centrale europea e di conseguenza il controllo dell’inflazione.

L’assenza di regole sarebbe svantaggiosa soprattutto per paesi ad alto debito: per l’Italia quello che conta per mantenere basso il costo del debito è lo spread. Un’Italia senza regole spaventerebbe i mercati. Viceversa, un impegno ragionevole alla riduzione del debito tranquillizzerebbe i mercati, consentendo una più facile riduzione del debito.  

Quello che proponiamo come European Fiscal Board è di definire un percorso di aggiustamento credibile, rivedendo la “regola del debito”; lo standard di riferimento può rimanere anche lo stesso (il 60 per cento), ma la velocità di adeguamento in un certo periodo (diciamo, 10 anni) deve essere contrattata e definita per singolo paese, tenendo conto anche del punto di partenza.

Come farlo è un problema aperto; certo si richiede un accordo politico tra i paesi dell’Unione, ma qui l’esperienza dei Piani nazionali per i fondi europei del Next Generation Eu (prima analizzati e approvati dalla Commissione e poi dal Consiglio) potrebbe rappresentare un utile riferimento.

Cambiare la “regola del debito”, a differenza dell’obiettivo del 60 per cento, richiede solo una modifica della legislazione secondaria, non dei Trattati o dei Protocolli annessi. 

Per verificare il rispetto del piano, proponiamo anche un unico strumento operativo, il controllo della crescita della spesa, calcolata al netto delle componenti più cicliche e di variazioni discrezionali nelle entrate fiscali. In pratica, date certe previsioni di crescita nominale per un dato periodo, diciamo un triennio, validate dalla Commissione e dai fiscal board nazionali (l’Upb in Italia) si definisce il tasso di crescita di questa spesa che è compatibile con la riduzione pattuita del debito e il paese si impegna a rispettarlo.

Questo avrebbe anche il vantaggio di essere in linea con quello che si fa già con la programmazione di bilancio e di essere basata su grandezze osservabili e comprensibili dai politici e dall’opinione pubblica.

Quindi basta con l’output gap, il bilancio strutturale e l’avvicinamento al Mto (obiettivo di medio termine), tutte variabili non osservabili e che oltretutto hanno condotto in passato la Commissione ad un controllo eccessivamente minuzioso dei bilanci nazionali, con connessa perdita di legittimazione per gli organismi europei.

E per il sostegno agli investimenti? Qui dipende. Se meccanismi come il Next Generation divenissero permanenti, come sarebbe desiderabile, allora una parte degli investimenti sarebbero di fatto decisi a livello europeo e i relativi fondi sottratti alla regola della spesa come prima indicata.

Se invece il programma si esaurisse nel 2026, come ora previsto, si potrebbe comunque pensare a forme di golden rule, cioè l’esclusione dalla regola operativa di spese per l’ottenimento di obiettivi decisi a livello europeo, come la transizione ecologica e digitale. 

La sanzione per i paesi inadempienti seguirebbe in modo naturale. Invece delle attuali multe, inefficaci e in effetti mai applicate, i paesi che non rispettano il piano di riduzione del debito perderebbero l'accesso ai fondi europei se questi venissero mantenuti. Lo stesso se non attuano gli investimenti previsti nei tempi concordati, come del resto già previsto con il piano attuale.

Se invece non ci fossero più i fondi europei e il paese fosse inadempiente sul piano di riduzione del debito la Commissione richiederebbe comunque una correzione, che se non attuata, porterebbe a rivedere l'atteggiamento favorevole agli investimenti nel computo della regola della spesa.


Articolo pubblicato su Domani il 9 gennaio 2022 

 

  

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