Da un lato, si tratta di adattarsi a una decisione NATO del 2014, dall’altro questo riapre la annosa questione del riarmo tedesco.


La trasformazione del conflitto russo-ucraino (scoppiato nel 2014), da guerriglia ad aggressione armata su ordine del Cremlino, ha portato la questione della sicurezza e della deterrenza bellica in primo piano per i paesi europei. Non si tratta di un tema che non era stato considerato negli ultimi anni: le aggressioni russe dirette verso gli stati sovrani ex URSS sorti dopo la fine della guerra fredda, e in particolare l’annessione della penisola della Crimea nel 2014, avevano fatto lentamente ricomprendere che la guerra fosse tutt’altro che uno spettro inconsistente, ma bensì una minaccia reale. Dato che una difesa comune europea era, nel 2014 così come oggi, inesistente, i singoli stati membri dell’UE, incapaci di provvedere a una sfida fuori dalla loro portata, si sono interrogati sulla propria capacità difensiva, visto il declino progressivo della spesa media per la difesa dei paesi europei registrato dopo la fine del quarantennale conflitto USA-URSS, sancito dall’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991.

La vasta maggioranza degli stati membri dell’Unione europea sono parte dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (21 su 27). Sorta il 4 Aprile 1949 con la firma del Trattato di Washington, è un’organizzazione militare a scopo difensivo. I paesi che vi hanno aderito basano la propria sicurezza sull’articolo 5 del suddetto trattato, che prevede che un’aggressione armata a uno stato NATO venga considerata un attacco verso tutti i paesi dell’alleanza. Ne conviene che tutti i suoi membri devono essere in grado di provvedere alla sicurezza dei paesi alleati. Per questa ragione nel 2014, pochi mesi dopo l’invasione della Crimea, al summit NATO del Galles fu deciso che si sarebbe dovuto invertire il declino delle spese per la difesa. Come criterio omogeneo atto a valutare l’impegno per l’alleanza fu stabilito che entro dieci anni la spesa per la difesa di ogni stato membro dovesse ammontare come minimo al 2% del PIL nazionale. Benché di per sé esso non sia un valore indicativo dell’effettiva efficienza e capacità difensiva di un paese, fu valutato come il miglior modo per una divisione paritaria dello sforzo per la sicurezza europea e nord-atlantica. La guerra condotta dall’esercito russo in Ucraina ha reso la questione dell’aumento delle spese militari non più prorogabile, prevedendo anche per certi paesi degli impegni di maggiore entità rispetto a quanto stabilito nel 2014.

Un’analisi che miri ad essere completa necessiterebbe di un approfondimento dettagliato della situazione dei singoli paesi. Senza la pretesa di essere esaustivo, questo articolo si prefigge di analizzare la situazione della Germania, senza scordare che il cambio di paradigma coinvolge la totalità dei paesi facenti parte dell’Unione europea membri della NATO. Si tratta di uno stato che deteneva poco prima dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina un budget per la difesa nettamente inferiore rispetto alla minima soglia indicata come sufficiente dalla NATO (1,4% del PIL nel 2020), e che con la dichiarazione del Cancelliere tedesco Olaf Scholz alla plenaria del parlamento del 27 febbraio 2022 ha annunciato, oltre al mantenimento dell’impegno NATO di portare la spesa per la difesa oltre la soglia minima del 2% PIL entro il 2024, anche un investimento immediato di 100 miliardi di euro, il che rende necessarie alcune considerazioni.

La Germania è un paese per il quale il riarmo fu una delle delicate questioni da risolvere dopo la conclusione del tragico secondo conflitto mondiale. Chiaramente in questo momento non si parla di un riarmo tedesco, ma di un investimento molto più consistente rispetto al passato: si passerebbe da una spesa di 52,765 miliardi di dollari del 2020 (1,4% PIL) a una spesa ipotetica totale di 76,928 miliardi di dollari (2% PIL tedesco 2021), ai quali vanno sommati i 100 miliardi di euro stanziati in aggiunta. Entro il 2024 la Germania diventerà dunque il terzo paese al mondo per spese militari complessive, dietro a USA e Cina. Anche se è bene chiarire che il Trattato di non Proliferazione Nucleare (NPT), entrato in vigore nel 1970, impedisce agli stati che non detenevano il nucleare a scopi bellici entro quella data di sviluppare testate nucleari. Attualmente dispongono del nucleare a scopi militari USA, Russia, UK, Francia (unico stato UE), Cina, India, Pakistan, Corea del nord, Israele (dati non certi). La Germania, firmataria del trattato, potrebbe sviluppare armamenti nucleari solo violando il diritto internazionale. La mancanza nel suo arsenale del nucleare ridimensiona il suo potenziale di deterrenza e di minaccia. Nonostante ciò, diventare il terzo paese al mondo per spese militari significa un potenziale bellico molto elevato nelle guerre di tipo convenzionale (non nucleari). Un inquadramento storico della questione potrebbe aiutare a comprendere perché si tratta di una questione centrale per l’Europa.

Inizialmente la questione tedesca fu risolta privando lo stato della sua sovranità dopo l’armistizio tedesco, ponendolo sotto il controllo dei paesi vincitori, che si divisero il territorio in quattro sfere d’influenza (grazie al riconoscimento della Francia Libera guidata da de Gaulle, come rappresentante del vero paese, la Francia fu ammessa al tavolo delle Grandi Potenze), e successivamente diviso in due stati distinti, la Repubblica Federale Tedesca (RFT) e la Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Dopo la creazione della NATO nel 1949, e nei primi anni di Guerra Fredda sul suolo europeo, fu evidente che la RFT, ancora priva di mezzi militari, necessitasse di un esercito per fungere da baluardo difensivo per tutta la parte occidentale del continente, trovandosi proprio al confine con il blocco est-europeo controllato dall’URSS. La Francia però, a soli dieci anni di distanza dalla sconfitta subita nel 1940 dai tedeschi con la loro Blitzkrieg, propose nel 1950 di istituire una Comunità di difesa europea (CED), in modo da impedire ipotetici futuri tentativi di aggressione armata per mano tedesca e dotare l’Europa occidentale di un’efficace sistema difensivo. La proposta fu colta da Altiero Spinelli, che suggerì all’allora primo ministro italiano Alcide De Gasperi di proporre l’inserimento di un articolo, che poi diventerà l’art. 38 del trattato CED, che prevedesse un corpo politico europeo al comando della Comunità di Difesa. Nel 1954 il Parlamento francese ne bocciò la ratifica, dopo l’approvazione di Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e RFT, ponendo fine al tentativo più vicino alla creazione di uno Stato federale europeo. Alla Germania fu concesso un riarmo graduale e di bassa entità, sotto l’ancoraggio alla NATO, a cui la RFT aderì nel 1955. A quasi settant’anni di distanza, nonostante il progressivo sviluppo dell’integrazione europea, l’Unione europea si trova ancora priva di un esercito comune. E le ragioni che spingono per la creazione di esso, sotto il controllo di uno Stato federale europeo sono molteplici e in parte quelle che la storia ripropone:

  1. L’aumento delle spese militari da parte di ogni singolo stato nazionale NATO rende inefficienti e mal allocate le spese per la sicurezza: la Russia (che non rappresenta l’unica minaccia per la sicurezza europea, ma è la più consistente in questo periodo storico) spende 61,713 miliardi di dollari per il proprio esercito (2020), cifra all’incirca alla pari con la spesa degli eserciti di Germania e Francia, anche se detiene il più vasto arsenale nucleare al mondo. Risolvere il problema da un punto di vista nazionale fa sì che ogni stato europeo preso singolarmente non riesca a garantire per sé la propria sicurezza. Solo sotto l’ombrello NATO vi si riesce al momento, fintantoché gli Stati Uniti riescano a garantire una superiorità degli armamenti a livello mondiale. Invece, solo la spesa stimata entro il 2024 di Germania Francia e Italia, senza dunque contare gli altri paesi UE, sarebbe di oltre 180 miliardi di dollari.
  2. Risolverebbe in maniera definitiva la questione tedesca: chiaramente, grazie a settant’anni di integrazione europea, la situazione non è certamente la stessa del 1950. Ma non si può non constatare che l’Unione europea è un progetto tutt’altro che ultimato, trattandosi di un’organizzazione internazionale, per quanto molto avanzata, priva di una Unione politica. La Brexit ha inoltre dimostrato che può trattarsi di un fenomeno reversibile per dei singoli paesi; l’ipotesi di un’uscita della Germania dall’UE è molto remoto, ma non da escludere a priori.
  3. Non è saggio mantenere ventisette eserciti nazionali dal potenziale bellico in aumento, su un territorio che ha un’estensione in km quadrati pari alla metà di quella degli Stati Uniti. Come chiarisce Lord Lothian nella lezione sulla “Prevenzione della guerra”, parte delle American Lectures, “la causa più costante e attiva della guerra è la divisione dell’umanità in stati sovrani separati”.
  4. Renderebbe l’Unione europea un attore in grado di dipendere di meno per la propria sicurezza dagli Stati Uniti, soprattutto da minacce di guerre di tipo convenzionale e capace di deterrere maggiormente bellicismi futuri, anche non sul suolo europeo.

La sicurezza è dunque una delle sfide cui gli stati nazionali europei sono in grado di far fronte solo in maniera raffazzonata e mal gestendo le proprie risorse. Il problema può essere risolto efficacemente se si interviene alla radice di esso: superare le divisioni nazionali e creare una difesa comune europea, anche tra un gruppo ristretto di stati, gestita da uno Stato europeo federale.

 

  

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