A quattro mesi dal 24 febbraio 2022 in cui Vladimir Putin ha riportato il fantasma novecentesco della guerra in Europa, iniziando un’invasione su larga scala dell’Ucraina, nessuno, nemmeno lo stesso aggressore, è in grado di prevedere con certezza la durata e l’esito del conflitto.
La pianificata guerra-lampo si è trasformata in un conflitto che alla fine ha costretto la Russia stessa a ridimensionare i suoi obiettivi alla sola “liberazione” della regione del Donbass, a sostegno delle repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Luhansk. Le truppe sono state ritirate dal nord dell’Ucraina e dai dintorni di Kiev, per concentrarsi nell’est e nel sud del paese. In tale strategia si inseriscono la conquista di Mariupol, l’avanzamento a Severodonetsk e una futura espansione nel Donetsk, attraverso bombardamenti a tappeto dell’artiglieria che hanno prodotto orrori e devastazione, come denunciato anche dall’ONU, pur di fiaccare la resistenza ucraina.
L’Ucraina, aggredita, punta a resistere il più a lungo possibile all’avanzata russa nell’area del Donbass e a contrattaccare sul fronte meridionale del paese per riconquistare territori occupati dai russi nella regione di Kherson, dove è in corso un processo di “russificazione” forzata e di annessione alla Russia. La capacità di resistere degli ucraini dipenderà molto però dal supporto finanziario e militare degli occidentali. Il presidente Zelensky ha più volte invocato un più celere invio di aiuti e di armi tecnologicamente avanzate, utili a riequilibrare la disparità militare sul terreno, che necessiteranno però di un addestramento più lungo per poter essere usate.
L’incerto scenario non favorisce una rapida soluzione pacifica del conflitto. Fallito il summit organizzato in Turchia a marzo, non si prevedono a breve nuovi tentativi in quanto sia la Russia che l’Ucraina puntano ad ottenere successi militari per migliorare le rispettive posizioni negoziali, se non addirittura per coltivare speranze di una vittoria militare.
L’Occidente, fin da subito al fianco dell’Ucraina aggredita, sta attuando una politica di sanzioni sempre più stringenti contro la Russia danneggiandone l’economia. Sul piano interno non si ha però ancora la percezione di una reazione diffusa della popolazione russa contro la guerra e sul piano internazionale l’avvicinamento alla Cina e la presa di distanza dalle sanzioni di paesi come Turchia e India rendono difficile la strategia dell’isolamento. La durata incerta del conflitto espone poi l’Occidente al rischio della “war fatigue”, misurando la tenuta del suo sostegno all’Ucraina a fronte dei costi della guerra e delle contro-sanzioni russe: dalla gestione dell’accoglienza dei rifugiati ucraini, al taglio delle forniture del gas russo fino al blocco dei porti del Mar Nero e dell’esportazione di grano, che aggravano situazioni di crisi già esistenti in Europa e in altre aree del mondo.
L’invasione russa dell’Ucraina ed il ritorno della guerra in Europa stanno facendo crollare tabù ormai consolidati nella storia europea: a) il ritorno della prospettiva di un nuovo allargamento dell’UE; b) il riarmo tedesco; c) la rinuncia della Danimarca via referendum alla clausola di opt-out in materia di difesa europea.
Lo scorso 18 maggio, quando i governi di Svezia e Finlandia, in forma congiunta, hanno richiesto l’adesione alla NATO, abbandonando la storica neutralità, è caduto un altro tabù. Il pericolo della minaccia russa era ormai ben presente in questi paesi, per via di provocazioni militari e attacchi ibridi subiti negli ultimi anni, tanto da averli spinti a sviluppare credibili sistemi di difesa, avanzati e moderni, e a cooperare come partner della NATO in esercitazioni congiunte.
L’invasione russa dell’Ucraina ha accresciuto nelle popolazioni dei due paesi la paura per la propria sicurezza, come dimostrato da sondaggi di opinione che per la prima volta hanno mostrato consensi maggioritari per l’ingresso nella NATO. Soprattutto in Finlandia, che con la Russia condivide un confine di più di 1.300 chilometri ed il ricordo di tre guerre combattute con l’allora Unione Sovietica, in cui subì forti perdite territoriali e di vite umane.
Durante la Guerra Fredda la scelta finlandese della neutralità obbligata, nota come “finlandesizzazione”, è stata esaltata come esempio di pragmatismo politico che le ha garantito autonomia politica e una pacifica convivenza col vicino ingombrante. La Svezia ha portato avanti la scelta della neutralità fin dalle guerre napoleoniche, aspirando al ruolo di superpotenza umanitaria per via dell’eccezionale impegno economico in aiuti umanitari con oltre l’1% del suo PIL.
Interessante notare come in marzo, in vista del Consiglio europeo a Versailles, le due premier svedese e finlandese, in una lettera congiunta, abbiano richiamato gli altri leader europei al rispetto, in caso di aggressione subita dai loro paesi, della clausola di solidarietà europea, prevista dall’art.42.7 del TUE. Sottolineando così l’esistenza di un principio cardine di una sicurezza europea autonoma, che offrirebbe protezione ai suoi membri a prescindere dall’appartenenza alla NATO, a cui questi governi socialdemocratici erano storicamente contrari. L’evidente disparità in termini di capacità militare e operativa tra la NATO ed una difesa europea tutta da costruire li ha però poi convinti per la scelta atlantica.
L’ingresso nella NATO prevede l’approvazione unanime dei suoi membri. La politica “delle porte aperte” e la convenienza militare e geopolitica dell’operazione farebbero pensare ad una decisione scontata. Resta però da superare il veto della Turchia, condizionato alla rinuncia da parte dei candidati al sostegno delle organizzazioni curde, quali PKK e YPG. Il veto turco, per molti superabile, riflette però l’esistenza di un problema interno alla NATO, che si propone di essere un’alleanza di paesi democratici. La presenza di membri come Turchia e Ungheria, spostati su forme di autoritarismo nazionalista, mette in crisi l’unità e la coerenza ideologica della NATO.
Nonostante questi problemi, la NATO sta vivendo un inatteso rilancio rispetto all’era Trump. Con l’ingresso di Svezia e Finlandia si espande ulteriormente ai confini della Russia, rafforzando la sua presenza nel Baltico e nella regione artica. Paradossalmente si sta concretizzando una delle maggiori paure di Putin, che l’invasione dell’Ucraina doveva disinnescare e che invece ha accelerato.
Permane però la problematica di un’Alleanza asimmetrica tra le due sponde dell’Atlantico. I paesi europei si trovano a dover spesso seguire la linea dettata dagli USA, nonostante siano i più esposti alle conseguenze della guerra. Lo stesso Putin, che da tempo lavora per dividere ed indebolire gli europei, ora accusa l’UE di aver ceduto la propria sovranità politica alla volontà degli americani, accettando di imporre sanzioni che la autodistruggeranno.
La crisi in Ucraina e l’attuale contesto geopolitico pongono gli europei davanti alla sfida di costruire una propria autonomia strategica e di conseguenza un profilo politico. Una vera e propria sfida identitaria che comporta un “salto di qualità” politico ed istituzionale verso la costruzione di una federazione europea. In questi termini l’UE, al di là delle irricevibili provocazioni di Putin, dovrà definire il suo ruolo politico nel contesto NATO, o meglio, nei rapporti con gli USA, e quindi nello scenario globale. Se confermarsi elemento atlantista ma al traino degli USA, o invece parte di quel campo ma con una presenza autonoma attiva, tesa al perseguimento di un approccio internazionale, anche differente se necessario da quello americano, esercitando un ruolo di “potenza di pace”, per il rafforzamento delle istituzioni a livello mondiale in grado di creare i presupposti per un governo mondiale.
Un primo banco di prova sarà la costruzione di una credibile politica estera e di difesa europea. La rinuncia danese all’opt-out, la sensibilità svedese e finlandese sulla clausola di solidarietà europea sono segnali di una nuova consapevolezza comune che ha portato tra l’altro all’approvazione dello Strategic Compass. L’UE deve però uscire da una logica intergovernativa, fatta di decisioni all’unanimità e di marginalizzazione del Parlamento europeo, per portare avanti un progetto credibile.
Tanto più che la scelta europea di Ucraina, Moldavia e Georgia e l’accettazione di rimaner fuori dalla NATO, impongono all’UE di offrire a questi paesi il giusto riconoscimento dell’alto valore simbolico e politico della loro scelta, riformando al più presto il sistema in cui questi membri dovranno entrare rendendolo più accogliente e funzionale, se necessario anche ricorrendo a soluzioni innovative.